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PER NON DIMENTICARE IL 2009- L’Aquila terremoto dimenticato da un politicume che coltiva il proprio ombelico

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L’Aquila terremoto dimenticato da un politicume che coltiva il proprio ombelico.

Lo scorso anno il tour del centro Italia mi ha portata sul gran sasso e a L’Aquila oltre che nelle zone del terremoto che hanno colpito Umbria e Marche passando da Norcia ad Arquata del Tronto a Camerino fino a Macerata… A 5 anni dal sisma del centro Italia del 2016 mi sembra giusto ripubblicare le impressioni ricavate e scritte sul Blog dopo il soggiorno a L’Aquila dove il terremoto ha colpito nel 2009. Ha azzerato la città e i suoi abitanti e a distanza di 11 anni è ancora tutto da fare.

Le immagini, più delle parole parlano da sole. Riparlare di questi fatti non significa fare scarna e facile retorica, significa affermare la realtà tante volte scacciata dalla memoria corta del nostro paese e dei suoi abitanti. Fissare le date, le cose, le emozioni in una società che si liquefa nello spazio di un post è un’azione di resistenza civile. E’ per questo che ripubblico quanto scritto lo scorso anno.

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L’Aquila, 11 anni dopo la città bianca langue dimenticata da un politicume che coltiva solo il proprio ombelico. La città è bianca. E’ imprigionata in un groviglio di tubi Innocenti e di coperte di plastica a celare il “mai fatto”, ma è bianca, luminosamente bianca. All’Aquila, la ricostruzione della città è una chimera dopo che sono trascorsi 11 anni dal terremoto quando si prometteva una ricostruzione lampo.

Anzi la fondazione in pochi mesi di una città nuova. Una new town, remember? (Detta così, in inglese, faceva più effetto perché gli anglosassoni sono pragmatici e portano a casa concretezza al quadrato ogni volta che si impegnano…

Contenutinascondi1 L’Aquila, 11 anni dopo – La new town2 L’Aquila, 11 anni dopo – Il Gran Sasso3 L’Aquila, 11 anni dopo – Il dedalo di tubi4 L’Aquila, 11 anni dopo – Chi tornerà ad abitare?5 L’Aquila, 11 anni dopo – Lentamente si riprende6 L’Aquila 11 anni dopo – Le case degli studenti7 L’Aquila, piccola galleria

Contenuti nascondi
7 L’Aquila, piccola galleria

L’Aquila, 11 anni dopo – La new town

Detto così in inglese faceva pensare che si sarebbe fatto presto, faceva sperare che si fosse trovata la formula magica per aggirare la burocrazia e le norme esistenti diventati una giungla intricata tanto che una norma spesso annulla l’altra.

Erano solo parole, se stiamo alle immagini catturate con un antiquato iphone di quarta generazione. Tante figure che parlano da sole e che sollevano una caterva di interrogativi.

Possibile che di questo problema si sia persa la memoria? Possibile che ci si perda quotidianamente da anni ad arrotolarsi intorno all’ombelico di un politicume che coltiva esclusivamente il proprio orizzonte prospettico e non si cura d’altro?

Definizione inglese a parte non solo non esiste una new town alla base della piattaforma appenninica su cui sorge L’Aquila, ma quelle palazzine che sono state costruite a Sassa il quartiere che si incontra sulla sinistra arrivando a l’Aquila dalla statale 17 da Rieti  sono oggi l’ennesimo mostro che punteggia qua e là quel bellissimo paese che ci vantiamo di abitare di cui non ci curiamo di sostenere e difendere.

Da chi? Da noi stessi verrebbe da dire. Un peccato non averla vista a fondo, assaporata, vissuta prima della distruzione da cui è stata colta.

L’Aquila, 11 anni dopo – Il Gran Sasso

L’Aquila è là, appoggiata sui monti appenninici di cui il dominus è il Gran Sasso d’Italia e sorvegliata a vista dai monti della Laga condivisi con un’altra zona terremotata, quella di Amatrice, Accumoli nel Reatino, sisma più giovane ma altrettanto devastante e sepolto nella dimenticanza di un Paese molto loquace quando si mettono in fila i propositi ma parimenti ingessato dall’inedia al momento di metterli in pratica.

L'Aquila
Assergi. Piccolo borgo “fantasma” sopra L’Aquila
L'Aquila
Assergi

La città resta bianca. Il candore colpisce e mette in risalto il suo essere piegata in due, afflosciata su se stessa. Contribuiscono  le enormi “bende” ingiallite dal tempo e sottoposte ciclicamente a revisione così come le stampelle d’acciaio con cui sono puntellati i muri antichi come quelli di San Massimo sulla piazza principale oppure la chiesa di Santa Maria Assunta in Paganica che un tetto non ce l’ha più e i muri del perimetro sono protetti da tettoie sostenute da ponteggi d’acciaio.

L’Aquila, 11 anni dopo – Il dedalo di tubi

Tante volte sono intervenuti per “tirare” i bulloni dei tubi Innocenti che dopo tanti anni non stanno fermi, si sa la terra è viva e si muove, anche impercettibilmente ma si muove – ci ha detto un medico tornato a L’Aquila dopo anni passati all’estero per lavoro – e non so quanto sarà stato speso per tutte queste operazioni che sono in corso da oltre un decennio.

Tra le chiese è riaperta e tornata a splendere la chiesa di Santa Maria del Suffragio – o meglio delle Anime sante – costruita dopo un terremoto che rase al suolo la città nel 1703. All’interno il racconto per immagini delle 309 vittime in quella notte di aprile. Per non dimenticare.

L'aquila
Edificio steccato di tubi sul corso principale

E poi c’è il problema enorme di un centro storico completamente attaccato dal sisma con palazzi bellissimi e altri meno importanti ma allo stesso modo vincolati dalla soprintendenza. Lo sky line dell’Aquila sono le gru più o meno alte. I rumori che scandiscono le ore delle assolate giornate di luglio provengono da tanti cantieri che si aprono nei vicoli della città.

Operai al lavoro ce ne sono, lavorano alacremente e continuano anche oltre il tramonto. Alcune case sono sistemate anche se gli abitanti sono fantasmi. I campanelli accanto ai portoni hanno pochissime etichette coi nomi dei residenti o di uffici o studi… sono quasi tutti vuoti.

L’Aquila, 11 anni dopo – Chi tornerà ad abitare?

Dopo 11 anni chi ha potuto una casa se l’è costruita altrove. Molti sono fuggiti da quelle casette – le avete viste là sotto? – stanno crollando sono inutilizzabili quando va bene altrimenti diventano rifugio di fortuna occasionale per chi vive ai margini. Nessuno è disposto ad abitare in una condizione del genere? Meglio l’abbattimento. Si discute a L’Aquila anche se la tenacia, la resistenza di rimettersi in movimento non ha mai toni alti. Gente di montagna, gente resistente.

Nelle strade un po’ di vita ha ripreso a respirare. La libreria di corso Vittorio Emanuele è a pieno ritmo con le prenotazioni dei libri scolastici. I titolari vanno fieri del loro scaffale di montagna “Cerchiamo di far conoscere questa meraviglia che è il nostro Appennino, i sentieri, i fiori, le rocce… Spiegano quando chiediamo se c’è un libro che illustri la flora dell’Appennino centrale…

Sul Gran Sasso abbiamo notato una fioritura meravigliosa con fiori mai visti e poi si svela il mistero la strettoia in cui è emerso il Gran Sasso ha una particolarità che risale ai tempi della formazione della catena montuosa quindi a milioni di anni fa quando ha “raccolto” le specie del Nord insieme a quelle mediterranee ma ha accolto anche le essenze provenienti dalle terre dei Balcani… non staccate dal mare… ma è un’altra storia che meriterebbe di essere ulteriormente approfondita.

L’Aquila, 11 anni dopo – Lentamente si riprende

Intanto nella città bianca sotto al monte i bar la sera si animano nonostante tutto. Nell’oscurità le transenne, le zone off limit rappresentano una ferita ancora più marcata. Ma s’incontrano anche persone che hanno voglia di fare e di riprendere. Un piccolo negozio di spezie, (Camelia in via principe Umberto) ci accolgono due giovani gestori con tante speranze.

Abbiamo aperto a Natale e poi a febbraio con il Covid 19 abbiamo subito chiuso… Lamentano ma il sorriso si fa largo e guardano avanti. Ora puntano su internet il sito del negozio si sta approntando compatibilmente con le difficoltà che incontrano anche i fornitori di questi servizi. Sono ancora chiusi e si stanno riorganizzando. Il Covid 19 è stata una mazzata brutta per tutti noi. Per L’Aquila ancora di più, un’altra gamba tesa su un corpo a terra. Letteralmente. Ma si va avanti. I turisti? Sì, cominciano a tornare.

Gran parte – segnalano con una punta di dispiacere – vengono a vedere a che punto siamo, a che punto sono le ricostruzioni.

L’Aquila 11 anni dopo – Le case degli studenti

Anche quelle sono un bel groviglio. Si è deciso di intervenire attraverso consorzi tra proprietari per cercare di portare a termine i lavori di interi isolati. Tutto va a rilento. Parecchio a rilento. E torna il dubbio senza risposta… più passano gli anni quanti ex residenti di L’Aquila torneranno ad abitare qui? E quanti giovani? A proposito di giovani…

Sulla circonvallazione che porta all’ingresso dell’autostrada per Teramo le palazzine delle case per studenti. Sono stati tanti i morti. Sulla staccionata logorata dal tempo sono ancora visibili le foto dei ragazzi morti sotto le macerie… un peruviano, un americano… storie ancora vive come i mazzetti di fiori rimasti attaccati alle foto.

Il palazzo del governo che divenne l’immagine simbolo del terremoto a L’Aquila nel 2009 con quel GOV…ERNO spezzato non è ancora ricostruito. Si sta lavorando ma il palazzo è ancora “grezzo”… Tanti luoghi con funzioni pubbliche sono ancora al palo. “Hanno spinto prima sui privati per sistemare le case” ci spiega un abitante e con la mano mostra le case intorno con i segni evidenti delle lacerazioni.

La strada sarà ancora molto lunga e forse pochi sanno dove potrà condurre.

Nulla sarà più come prima.

L’Aquila, piccola galleria

San Massimo, il duomo della città inagibile
Una via centrale
Le palazzine degli alloggi per studenti
Un palazzo accanto alla basilica di Collemaggio
Una via del centro rimasta al 6 aprile 2009
Il cielo è a scacchi per l’intrico di cavi elettrici delle linee provvisorie
La natura occupa gli spazi abbandonati. Il palazzo si trova accanto alla basilica di Collemaggio (sotto) completamente restaurata con un concorso di forze imponente
Una via quasi interamente recuperata
Basilica di Collemaggio in tutto il suo splendore

Un pezzo ospitato da Libertà nell’agosto dello scorso anno che ricorda i terremoti del 2009 a L’Aquila e del 2016 nel centro Italia che ha aperto un cantiere immenso che ha toccato tanti piccoli comuni su quattro regioni. Tra l’altro sull’esperienza come volontaria nel terremoto del centro Italia ho scritto anche un libro «… Ma ci resta il cielo». Caldarola: volontari del terremoto tra macerie e voglia di ricostruzione” concentrandomi sulla settimana trascorsa tra i volontari e i cittadini di Caldarola, un piccolo comune dell’entroterra marchigiano in provincia di Macerata.

LA COPERTINA DEL VOLUME USCITO NEL 2017

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Questo il testo pubblicato da Libertà nell’agosto del 2020.

Alla fine di agosto ricorre l’anniversario del terremoto nel Centro Italia. Nel 2016, il 26 agosto, la terra tremò sotto i monti dell’Appennino centrale. Piccoli paesi dell’alto Lazio al confine con Marche e Umbria, come Amatrice e Accumoli, rimasero stese a terra…(e lo sono ancora oggi) i morti furono tanti.

La terra tremò di nuovo il 30 ottobre dello stesso anno e la distruzione colse altre vite e si allargò colpendo pesantemente l’Umbria con Norcia dove è crollata tutta la basilica di San Benedetto patrono d’Europa (tranne la facciata in piedi perché puntellata); Castelluccio che fu rasa al suolo (famosa per la sua pia- na fiorita); le Marche con importanti cittadine della provincia di Macerata, da Camerino (il palazzo ducale, la sede dell’università e il centro sono ancora in zo- na rossa inaccessibile ) a Tolentino… e piccoli paesi con nuclei storici importanti come Caldarola (un centro antico nato intorno al castello Pallotta) e poi Arquata del Tronto, Visso… (paesi, questi, che non esistono quasi più).

Terremoti e ricostruzioni, il rap- porto non è stato lineare. In pie- na pandemia si sono ricordati il 6 aprile quello dell’Aquila (2009) e il 31 maggio quello di Modena (2012).

Come i grani di un rosario tornano alla mente quei luoghi devastati da sofferenza e distruzione ma anche il calvario delle persone travolte dai lutti familiari e con la speranza di poter tornare in quei luoghi in cui sono le loro radici.

Disastri dopo disastri le emozioni si ripetono e si rincorrono sempre uguali. E come sempre ad ogni disastro arriva la verifica di quanto macroscopicamente il paese sia scomposto nelle risposte, minando così la sua stessa unitarietà. Basti guardare ai tempi delle ricostruzioni nei do- po terremoti, inversamente proporzionali agli anni trascorsi dal

disastro. Un terreno che ci mostra le difficoltà enormi di un paese che geograficamente si presenta unito ma che su altri piani presenta lacune divenute odiose e insopportabili. Basti ricordare quanto, nei mesi scorsi, si temesse che il contagio di Covid 19 potesse invadere con la stessa virulenza espressa al Nord le regioni del Sud dove le strutture sanitarie – per ammissione delle stesse istituzioni che della sanità si dovrebbero occupare – non hanno il livello di quelle del- le regioni del Nord.

E mi chiedo come si possa permettere che tutto questo prosegua e incancrenisca. Come accettare, dandolo per scontato, che ci siano zone del paese che non camminano e non cammineranno mai? Perché trattarsi così male? Se un Paese moderno non procede nella stessa direzione e con la stessa velocità è evidente che a soffrirne è l’intelaiatura di tutto il Paese.

Ed è sui terremoti – che sempre rappresentano l’emergenza del- le emergenze – che si rende palese questo stato di cose.

Le zone terremotate evidenziano una fragilità intrinseca che va oltre i crolli quindi se non si lavora alacremente, dopo la distruzione fisica, rischiano di subire altri colpi mortali. In primo luogo il fatto che l’allontanamento

da questi luoghi rischia di diventare definitivo dando il via alla dispersione del tessuto sociale che ovunque, insieme al- le stratificazioni urbanistiche storiche, rappresentano la specificità dei posti in cui abitiamo e viviamo, in cui lavoriamo, intessiamo relazioni e costruiamo il nostro futuro e quindi anche quello delle collettività.

Ma in questo Paese unitario e geograficamente unito c’è ricostruzione e ricostruzione. Sembra assurdo ma è così .

Lo spunto per riflettere mi è arrivato da un recente viaggio in Centro Italia che ha toccato al- cune zone terremotate tra cui L’Aquila dove mi aspettavo si fosse ridata una fisionomia alla cit- tà completamente devastata dalle scosse del 2009.

La realtà invece ha mostrato quanto distanti siano le esp rienze maturate nelle tragedie di un sisma se solo si confrontano i tre terremoti che hanno punteggiato gli anni recenti. Tre nu- meri, 11, 8 e 4 sono gli anni dei tre terremoti devastanti riferiti rispettivamente ad Abruzzo, Emilia e Centro Italia.

Quei numeri che raccontano gli anni che ci se- parano dai tre terremoti ci parlano anche di qualcosa di ulteriormente doloroso: quanto il necessario ritorno alla normalità, dopo lo shock della distruzione, si manifesti in modo tanto differente tra una zona e l’altra di questo Paese.

E ti chiedi come mai, rispetto a un unico filo conduttore – la terra che trema che ha accomunato Abruzzo, Emilia e Centro Italia in questi pochi anni dall’inizio del nuovo secolo – vi sia una tanto evidente differenza nella risposta e nell’impegno verso il ritorno alla normalità che solo la ricostruzione può assicurare.

La ricostruzione è il nodo da cui emerge tutta la debolezza di un sistema Paese che non funziona appieno e che si muove a più velocità.

E’ chiaro che rimettere in piedi gli edifici, ridare vitalità a un corpo sociale straziato nel suo intimo dalle perdite di persone care e dalla storia individuale di

Assergi, piccoli segni di vita nonostante tutto, ma girato l’angolo l’immagine della distruzione temporaneo deo ni cittadini rischia una vita non basta lo spazio di un tweet e neppure sono sufficienti dichiarazioni d’intenti che quando restano solo parole diventano offensive non solo per chi sta subendo il dramma della catastrofe, ma anche per tutti i cittadini che per definizione hanno l’obbligo morale e l’impe- gno personale di credere nello Stato di cui fanno parte.

Ma quello stesso Stato si deve essere impegnato a mantenere alta quella fiducia. Quale fiducia può resistere quando tocchi con mano le inefficienze, il distacco tra chi ha il compito di agire, di intervenire e non lo fa? Perché tutto questo?

I terremoti segnano delle tappe su cui non si può non riflettere perché se la distruzione, se la ter- ra che trema è imprevedibili quello che dopo la distruzione è necessario fare non è compito del fato o del caso o di una terra matrigna. E’ compito del sistema politico sociale che chiamiamo istituzioni. E nel caso dell’Abruzzo e dell’Aquila quel sistema non ha evidentemente funzionato e se ne vedono ancora gli effetti.

Avrei voluto poter fotografare tutto a L’Aquila.
Avrei voluto avere una macchi- na fotografica che scattasse l’immagine totale dell’insieme di edifici con i loro muri ancora squarciati, avrei voluto immortalare l’ambiente e le persone… pensieri e sentimenti compresi.

Persone che sperano e amano quel luogo che dopo 11 anni (sono stati ricordati il 6 aprile scorso in piena pandemia) a chi passeggia nelle sue vie lancia forte e senza appello una denuncia che dovrebbe arrivare pungente come una stilettata a chi in questi anni è passato oltre senza vedere, ha lasciato alle spalle il terremoto del 2009 cambiando pagina come se nulla fosse.

Come se nulla fosse e senza fare quello che sarebbe stato necessario fare come priorità assoluta. Restituire quel luogo ricco di bellezza e di storia alle persone che lo abitavano. Ma non solo per questa ragione uno Stato se esiste e funziona interviene nel momento del bisogno. Il terre- moto a L’Aquila ha messo sul ta- volo delle istituzioni, locali, regionali e nazionali un argomento grande, grandissimo, enorme tanto che avrebbe dovuto occupare le pagine delle agende po-

litiche sopra ogni cosa. Avrei vo- luto poter avere un obiettivo che inglobasse tutto quello che a L’Aquila si è mostrato sotto i miei occhi. Strade, edifici, abitazioni, uffici impacchettati di cellophane e sorretti da giganteschi reti- colati di tubi ancora oggi dopo più di un decennio che chissà mai se verranno recuperati. Non è degno di un Paese civile.

E viene da chiedersi come sia possibile l’inerzia che ha fatto sì che quello spettacolo di brutale violenza come la devastazione del terremoto sopravviva ancora 11 anni dopo.

Ci sono situazioni che non pos- sono non indignare. Se da un ter- remoto sono trascorsi 11 anni ti aspetti che tanto tempo sia ser- vito per ridare fiato, vita e speran- za a una zona colpita.

Ma non è così . A L’Aquila, 11 anni dopo, in alcuni casi non sono neppure state abbattute le case pericolanti, ci sono intere vie dove incombono segnali di pericolo; in Emilia dove a maggio sono stati ricordati gli otto anni dal terremoto la ricostruzione delle abitazioni è arrivata al 90 per cento e il 2022 sarà il traguardo per chiudere il pesante fardello sisma. Così ha promesso il presi- dente Bonaccini.

Del resto per noi che viviamo in questa realtà sarebbe impensabile che una città emiliana po- tesse essere lasciata nella situazione in cui ho visto L’Aquila ancora nel luglio del 2020, 11 anni dopo il sisma.

E poi c’è il Centro Italia, il terre- moto più giovane del Millennio, quello che forse crea i maggior i problemi per la burocrazia, per il passaggio di testimone tra vari commissari, per le lungaggini delle Regioni… E poi c’è il fattore geografico. Il cratere è vastissimo, formato da piccoli e medi comuni spesso con pochi mezzi e ridotto personale.

Nella maggior parte dei casi si tratta di centri medievali compromessi pesantemente. Un esempio emblematico: la già citata Basilica di San Benedetto a Norcia: in pie- di la sola quinta della facciata. E’ un simbolo europeo, ma ha ancora le stampelle. Si sa che i tempi di una distruzione sono fulminei ma quelli delle ricostruzioni sono lunghi ma non possono es- sere eterni. Anche questo sarebbe un segno di modernizzazione.

Antonella Lenti (info@antonellalenti.it)

L'Aquila
Il taccuino di aelle

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ECCO IL VOLUME “MA CI RESTA IL CIELO” RACCONTA L’ESPERIENZA DI VOLONTARIA A CALDAROLA PAESE MARCHIGIANO COLPITO DAL SISMA DEL 2016


Antonella Lenti

…Ma ci resta il cielo

Caldarola: volontari del terremoto

tra macerie e voglia di ricostruzione

Introduzione

Attenzione a non perdere

il calore umano: il volontariato

sta in piedi con questo.

     Questa esperienza è stata possibile grazie alla disponibilità e alla fiducia concessa dai dirigenti dell’Ana (Associazione nazionale alpini di Piacenza), dal presidente Roberto Lupi, dal responsabile della protezione civile di Ana, Maurizio Franchi, e naturalmente da Paola Gazzolo, assessore regionale alla protezione civile.

È grazie a loro che abbiamo potuto dedicare una parte del tempo a raccogliere impressioni, testimonianze e considerazioni sulla situazione di Caldarola, paese del Maceratese colpito dal terremoto.

Volontari, ma anche giornalisti in fondo. 

Ancora oggi, a distanza di diversi mesi da quei momenti, ricordiamo ogni minuto passato a Caldarola. Per aver vissuto lì, per aver partecipato ai racconti della gente, per aver respirato la stessa aria polverosa sporcata dalle macerie del terremoto, ci sentiamo parte della vita di quel territorio.

A distanza abbiamo seguito attraverso face book le iniziative, la vitalità, gli sforzi e gli innumerevoli colpi di reni che quei cittadini si sono dati per reagire a una situazione a cui nessuno può essere preparato prima. Con determinazione e grande passione civile li abbiamo visti riprendere, anche se lentamente e faticosamente, le redini di un futuro che la ‘bestia’ ha spezzato, per usare le parole di Melissa, una giovane donna che è a Caldarola che vuole continuare a vivere e portare avanti il suo allevamento di Border Collie.

Il grosso problema di domani, dopo il terremoto che ha azzerato tanti piccoli paesi, è il rischio di spopolamento, rischio che questa parte d’Italia, che racchiude la nostra storia, possa diventare una testimonianza spenta del passato e non restare un cuore vivo. Il terremoto anche qui ha fatto una vittima, Milena Nardi, morta d’infarto durante la scossa del 24 agosto. Nessun’altra vittima, ma dentro la paura della scossa non la cancelli più e ti senti solo con questa sensazione che sopravvive.

Una parte di noi è rimasta con loro. Tristi per non aver saputo fare di più e meglio.

E grazie, naturalmente, ai nostri amici volontari con cui abbiamo condiviso sette giorni di grande valore umano. Amici volontari provenienti da associazioni e presenti con funzioni diverse. Eccoli: Angela Magnani, Franco Naprini, Carmelo Cirillo, Giusy Quaranta, Armando Perini, Maria Alberta Cammi, Francesco Fariselli, Giuseppe Zoni, Tiziana Ramenzoni, Giorgio Barezzi, Fabrizio Montanari, Mirco Zucchini, Pio Boccaleoni, Claudio William Zanni, Emilio Maurizio Cervetti, Giuseppe Ippolito, Mario Casolari, Antonio Belloi, Giuseppe Addabbo, Umberto Scarpetta, Matteo Parenti, Angelo B. Gulina, Silvio Cameriero, Massimo Valnera, Claudio Boccanera, Elena Castiello, Paolo Simoncelli, Ivo Quadrelli, Narciso Scansani, Roberto Pasquinoni, Orlando Cassoli, Giorgio Sgroi, Elvia Pracucci, Maria Christina Neild, Vincenzo Ferrarini.

PARTE PRIMA

Volontari si diventa

Dobbiamo fare qualcosa

Dobbiamo fare qualcosa. “Non sappiamo fare niente, ma possiamo fare tutto”. Prendo a prestito questa frase dei due volontari della croce bianca di Piacenza presenti a Caldarola: sintetizza bene lo spirito con cui ci siamo mossi per iniziare questa esperienza.

Questi sono stati i pensieri: non possiamo restare indifferenti a tanta sofferenza; non basta guardare le immagini, impietosirsi e dire semplicemente come talvolta ci viene spontaneo: “Poveretti… e adesso come faranno? E se fossimo noi al loro posto? Se tutto quello che abbiamo costruito finisse in frantumi?”.

In una domenica mattina normalissima di ottobre, quando tutti si pensava che il terremoto avesse già dato il colpo basso definitivo e che nelle viscere della terra si stesse trascinando per andare in letargo, la ‘bestia’ ha dato un altro segno di sé, un segno di morte e distruzione.

È in quel momento che abbiamo sentito alla radio la notizia di nuove distruzioni, di nuovi colpi sul Centro Italia già sfinito con il colpo al cuore di agosto. È in quel momento che qualcosa in noi è scattato. Alla televisione scorrevano le immagini di nuove macerie, ancora Norcia, Castelluccio, ancora l’Umbria, ancora le Marche, ancora l’alto Lazio, con Amatrice che di morti ne aveva contati molti. Dove non era riuscita la scossa di agosto ci ha pensato questa nuova ancora più forte delle altre. Nuove macerie, nuove preoccupazioni per la sorte di tante persone.

E poi quell’immagine… la telecamera del telegiornale straordinario aveva zoomato sul volto di un vigile del fuoco che, insieme ad altri colleghi, aveva lavorato per estrarre un uomo dalle macerie. Sul viso di quel vigile lacrime di gioia, di commozione e forse anche di paura e tensione nel momento in cui l’uomo stava per essere portato fuori dalle macerie di una casa che non esisteva più. Lacrime di gioia perché quell’uomo con la canottiera e i pantaloni del pigiama addosso -le uniche cose, con l’orologio al polso, che gli erano rimaste- era vivo. La casa, con la storia di una vita, era crollata, ma lui respirava ancora, era presente. Vivo. I vigili del fuoco attorno a lui si sono abbracciati e lo hanno stretto. Il tetto aveva schiacciato i muri della casa che si erano sbriciolati sulla strada. Dallo schermo televisivo appariva come un dosso rallenta traffico, ma non poteva esserlo, aveva il comignolo. Che ci fa un dosso rallenta traffico con un comignolo che svetta? Sotto quel tetto era rimasto per tutta la notte un uomo. Era a letto e all’improvviso era precipitato sull’asfalto e sopra solo dieci centimetri dalle tegole del tetto. Quell’uomo, mentre le telecamere davano conto dell’ennesimo colpo basso del terremoto, stava per uscire da un pertugio rimasto miracolosamente aperto tra mattoni e travi della casa. I soccorritori avevano sentito il suo richiamo e avevano iniziato a scavare tra le macerie fino a raggiungerlo e a portarlo in salvo. Uno dei vigili lo ha abbracciato piangendo e lo ha stretto forte a sé.

Uno dei tanti episodi che hanno riempito le giornate dei soccorritori nelle zone del terremoto. Uno dei tanti episodi che hanno ridato speranza.

Quell’immagine ci ha toccato nel profondo e ci siamo immedesimati in quell’uomo che, disteso a letto, magari nel dormiveglia, ha creduto di stare per morire, ha sentito quel rumore di morte mentre la sua casa veniva giù, il boato, il buio e poi quei pochi centimetri cubi di aria, quelli che può contenere un’intercapedine tra il tetto e il letto. Siamo rimasti immobili di fronte a quelle immagini e ci siamo detti: “Bisognerebbe fare qualcosa. Qualcosa di concreto, aiutare in qualche modo. Ma cosa sappiamo fare a parte mettere a disposizione la nostra buona volontà? Abbiamo due braccia che si possono dar da fare. Proviamoci”.

Quel pensiero è rimasto sospeso per un poco, ha scavato dentro di noi, e poi è tornato e ogni volta con più forza.

In quel momento, mentre scorrevano le immagini, era domenica 30 ottobre e si stava preparando la colazione. Mi sono immaginata che cosa può aver pensato quell’uomo, disteso nel letto ad aspettare che qualcuno si accorgesse che era ancora vivo. A contare i minuti, a tenere viva la mente per non essere sopraffatto dalla disperazione che certo cresceva in quel pertugio. Chissà in quali pensieri quell’uomo ha cercato la salvezza.

Quando si è disperati, basta poco per aiutarsi a stare a galla. Basta un ricordo lieto che, come un filo d’erba, ci fa solletico sul collo e ci fa tornare alla mente momenti felici della nostra vita. Pensiero scaccia pensiero. Ma per far passare quelle ore lunghe che non finiscono mai sotto le macerie di ricordi bisogna passarne in rassegna parecchi. Bisogna imporsi di non soccombere, ma la forza per farlo dove la si va a pescare?

Alla mente mi è venuta l’immagine di una mia lunga attesa prima di entrare in sala operatoria sei anni fa. Il tempo non passava. Ero distesa su un letto in un ambiente freddissimo e congelavo. Che fare per tenere a bada il batticuore, per non venire sopraffatta? Momenti lunghissimi, tremendi, di apprensione e di angoscia, perché non sapevo come poteva andare a finire. Quelli per me sono stati solo pochi minuti di fronte all’abisso, al precipizio in cui si deve essere sentito quell’uomo. Era solo? Aveva una moglie, in casa c’erano dei figli? C’erano anziani? Per quella casa stava pagando il mutuo… e sotto nel piano terra che non c’era più c’era la sua bottega? Forse sì forse no. Forse non aveva più niente. Niente… ma aveva la vita. Una vita strappata alle macerie, che si sarebbe dovuta riprendere nel deserto. Conservare la propria vita non è forse il compito più importante che abbiamo? Tutto il resto, il lavoro, le cose, non sono altro che un complemento utile, fondamentale, certo, per mandare avanti la vita… ma se manca la vita tutto il resto finisce. Finisce con noi.

Pensavo tutto questo, mentre ipnotizzata dalla televisione seguivo le fasi del salvataggio. Mentre mi scendevano le lacrime, mentre mi sentivo pietrificata, è riemerso quel pensiero e ho detto a voce alta: “Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo avvicinarci e dare loro il nostro calore”.

È lì che è maturata in noi la consapevolezza che non basta l’empatia. Per quell’uomo uscito salvo dal terremoto, l’abbraccio del vigile del fuoco che lo ha portato all’esterno, che lo ha tolto dalle macerie, è stato di certo come trovare un tesoro inestimabile. È qui che ha cominciato a prendere forma il desiderio e la necessità di fare anche noi qualcosa. Di essere presenti e far sentire che eravamo tutti marchigiani, umbri, laziali, di essere loro accanto, ma davvero, fisicamente, per dare il nostro aiuto, non importa se qualificato o no. Anche versare una tazza di tè a un anziano che non può muoversi perché in carrozzina e perché ora vive in un ricovero di fortuna può diventare un gesto d’amore. Può diventare un gesto casalingo per persone che la dimensione casalinga l’hanno perduta per sempre e con essa è come se fosse andata in frantumi una vita lunga decenni.

È in quel momento che è scattata la scintilla. Ma come fare? Come funziona? Come si diventa volontari e come sapere dove è necessario intervenire? E soprattutto: potremo essere ritenuti idonei?

Arrivo in campo

Non dimenticheremo mai le lacrime di Roberta Rovelli, consigliera comunale di Caldarola, nel momento in cui ci hanno presentati e le abbiamo detto che avevamo portato con noi una borsa di libri per i bambini del suo paese. Era sabato 10 dicembre 2016. Con il pullman della croce rossa siamo arrivati con il gruppo Ana-Rer composto da alpini di Piacenza, Parma, Modena e Bologna. Ne saremmo ripartiti dopo una settimana. Noi eravamo solo i fattorini dei libri. Ce li aveva consegnati Sonia Galli della libreria Fahrenheit di Piacenza; “Perché” aveva detto, “forse ai bambini potranno servire”. La lettura può essere un buon compagno di viaggio per ricominciare a vivere. Roberta ci ha abbracciati e in lacrime ci ha ricoperto di ringraziamenti, immeritati per noi, ma rivolti evidentemente al grande lavoro che avevano fatto i volontari che si erano alternati dal 30 ottobre.

È per questo che attraverso queste pagine le comunichiamo a tutti. Ebbene, coinvolgendo anche noi nella commozione, Roberta disse: “Non so come ringraziare voi dell’Emilia Romagna che state facendo cose incredibili per aiutarci. I libri sono una manna dal cielo perché quelli della biblioteca che erano nella scuola sono prigionieri delle macerie e speriamo di riuscire a recuperarli al più presto. Ne abbiamo assolutamente bisogno. Grazie, grazie”.

Caldarola è un paese del Maceratese di millenovecento abitanti e tanti bambini, almeno duecentottanta; non pochi con i tempi che corrono. Si trova poco oltre Tolentino, a una ventina di chilometri da Camerino, cittadina più conosciuta per la presenza dell’Università. Ci si trova ai piedi della catena appenninica dei Sibillini che sono inseriti in un parco e, al di là del monte Vettore, a Ussita, ci sono Castelluccio e Norcia.

Al nord li conosciamo come luoghi di vacanza. Luoghi che ci sono entrati dentro perché è lì che è partita anche la nostra storia. Ora la fetta d’Italia tra i due mari è il cuore del terremoto.

A Caldarola la missione da compiere, oltre alla gestione della mensa e ai lavori di logistica del campo, è quella di mettersi a disposizione del paese, come è stato per il trasloco del materiale didattico custodito nell’edificio della scuola media, inagibile dopo il terremoto. Quotidianamente nel campo alla base del paese erano al lavoro una quarantina di volontari, suddivisi per diverse associazioni.

A Caldarola abbiamo incontrato altri piacentini.

Tra i volontari piacentini presenti, oltre al gruppo Ana protezione civile (Angela Magnani, Franco Naprini, Carmelo Cirillo, Giusy Quaranta, Armando Perini, Maria Alberta Cammi) abbiamo incontrato anche Francesco Fariselli e Giuseppe Zoni per la pubblica assistenza croce bianca di Piacenza, oltre a Giuseppe Addabbo e Umberto Scarpetta, due agenti di polizia municipale di Piacenza a Caldarola all’interno del progetto Anci di supporto alle istituzioni. Gli altri volontari provenivano da Rimini, Reggio Emilia, Modena, Bologna, erano sia aderenti ad associazioni di protezione civile sia funzionari di enti pubblici arrivati qui per dare una mano alle forze comunali, davvero scarne di fronte al lavoro immane che va dalla valutazione e verifica dello stato delle abitazioni alla compilazione dei fascicoli sui residenti che hanno perso tutto e che hanno bisogno di sostegno per sopravvivere, per dormire, per condurre una vita quasi normale, almeno per i figli.

Un lavoro che all’apparenza è burocrazia pura verso la quale si può provare una naturale avversione, ma che diventa fondamentale perché la regia di un’emergenza come quella che si è creata con il terremoto deve essere documentata al millesimo. Tutto questo infatti è propedeutico al ricevimento dei fondi nazionali dopo che il comune ha autorizzato gli impegni di spesa attraverso il Coc, il centro operativo comunale di cui il sindaco è il massimo rappresentante. Quello di Caldarola era stato ricavato in un piccolo spazio di un container, punto di riferimento operativo il tecnico comunale Angelo Seri.

Nei giorni in cui lo incontriamo anche lui è sfollato. Andata e ritorno ogni giorno dalla costa. Il lavoro inizia ogni mattina alle sette e trenta e le ore non si contano perché il Coc è il punto nevralgico di ogni decisione, di ogni scelta di fronte agli imprevisti che possono presentarsi in una situazione in cui tutto è fuori posto e nulla si può rinviare: tutto è urgente. “Presto torno a casa, i rilievi hanno decretato che è a posto” ci ha detto un giorno tirando un sospiro di sollievo.

PARTE SECONDA

Le testimonianze

Don Vincenzo: pregavo e piangevo

“Ci rialzeremo. Dobbiamo guardare avanti: il terremoto ci può togliere la terra sotto i piedi, ma non il cielo”.

È il messaggio di speranza che raccolgo da monsignor Vincenzo Finocchio che incontriamo ogni giorno alla mensa del campo. Racconta la scossa del 30 ottobre, ma di terremoti ne ha già vissuti tre.

“Quella domenica mattina mi trovavo in chiesa. La messa la celebravamo all’esterno, dopo la scossa del 26 ottobre. Avevamo attrezzato uno spazio dedicato alla funzione religiosa. Mentre stavo preparando la prima messa del mattino, mi sono accorto di non aver portato con me il microfono e sono andato in canonica per recuperarlo. È stato in quel momento che all’improvviso ho sentito un boato sordo. Hai presente quando in galleria sull’autostrada arriva dietro di te un mezzo pesante e il rumore del motore delle ruote cresce fino a riempire lo spazio del tunnel? Ecco, quello. L’arrivo del camion in galleria porta con sé anche un sibilo e un’eco dovuti allo spostamento d’aria”. L’immagine di don Vincenzo ci porta in un attimo dentro la situazione.

“Era questa la scossa di domenica 30 ottobre” continua il suo racconto don Vincenzo. “È stata infinita: cento quarantadue secondi. Mi trovavo in chiesa e in quel momento ero nel corridoio di un passaggio laterale, quando mi sono trovato nel mezzo del terremoto e mi sono fermato sotto l’arco di una porta. Non potevo far altro. Raggiungere la piazza sarebbe stato rischioso e ancora di più entrare in chiesa. Pregavo, pregavo, e intanto sentivo il rumore dei crolli e poi la polvere che si alzava dalla chiesa, dalla piazza. Una nebbia fittissima. Piangevo. Pregavo. Piangevo. Mi auguravo che in quella tragedia che si stava consumando non ci fossero morti”.

Momenti terribili quelli che racconta don Vincenzo, che ora una casa non ce l’ha più perché la canonica, come la chiesa, è stata danneggiata. Per alcuni mesi è stato sfollato. Ma ha fiducia e speranza.

“La paura è tanta. Le persone sono state costrette a lasciare le loro case dopo la scossa del 30 ottobre; prima di quel momento le abitazioni per lo più erano agibili, il terremoto del 24 agosto non aveva portato grossi danni. Poi invece… ma il paese si risolleverà” dice convinto, anche se il suo sguardo si volge lontano e non riesce a celare il velo di tristezza che ora avvolge tutti i cittadini di Caldarola.

“Le scosse di agosto non hanno provocato grossi problemi agli edifici, poche le case inagibili, abbiamo avuto danni diffusi, ma non gravi. Ci si stava riprendendo da quell’esperienza, tanto che il 20 ottobre eravamo ritornati a utilizzare la chiesa parrocchiale e il 23 avevamo fatto il rientro nella chiesa di San Martino e si erano riprese le celebrazioni. Poi, con la scossa del 26 ottobre, siamo ripiombati nella paura e le messe sono tornate a essere ospitate sotto la tenda che si sperava di aver lasciato per sempre. Il 26, durante un bruttissimo temporale, è arrivata anche una scossa forte che ha dato il colpo di grazia. Quel giorno sono cadute parti della facciata della chiesa e del monastero. Il colpo definitivo. A quel punto nella tenda” ancora il racconto di don Vincenzo, “non potevamo più celebrare le funzioni perché serviva per gestire il servizio di emergenza e per due sere abbiamo svolto le funzioni in una fabbrica, poi il sabato 29 nella tenda. Il giorno dopo, il 30, mentre ci si apprestava alla celebrazione della messa della domenica, la scossa mostruosa… Quello che abbiamo avuto è stato un terremoto ondulatorio, sussultorio e rotatorio. Lo si vede dal campanile della chiesa che si è avvitato su se stesso. Non si è mai vista una cosa del genere”.

Anche don Vincenzo, come tanti parrocchiani in quella settimana prima di Natale, è ancora tra gli sfollati. Da Finale Emilia però gli è arrivato un dono. Inaspettato. Una famiglia, che dopo il terremoto del 2002 aveva acquistato una casetta prefabbricata, ora che ha ricostruito la propria abitazione distrutta, ha deciso di donare il prefabbricato al parroco. Mentre eravamo a Caldarola, è stata consegnata e la notizia ha girato per il campo creando commozione e soddisfazione. La casetta è stata subito messa nel piazzale accanto al container-chiesa e canonica. Per essere utilizzata bisogna attendere che i tecnici realizzino gli allacci per servizi igienici, luce e riscaldamento: con il meteo a cui tutti guardano con apprensione e che non promette nulla di buono, è una necessità irrinunciabile.

“Sono stato ospitato un po’ ovunque. Dal dormitorio della protezione civile a un albergo ad Alba Adriatica (uno dei primi paesi sulla costa abruzzese molto distante da Caldarola). Poi mi sono ammalato e sono stato ospitato a Loreto. In questo momento” racconta ancora don Vincenzo, “dormo nel magazzino della Caritas del paese”.

Lentamente, dopo un periodo di sospensione sono riprese le attività parrocchiali. C’è il container in cui si celebrano le messe. Basta una croce per pregare. E la croce c’è nell’angolo del container. Di fronte all’altare le seggiole da giardino in fila e le panche utilizzate per le feste popolari si riempiono presto di fedeli. Ed è quello che succede domenica pomeriggio, quando la campana all’angolo del container richiama l’ora della preghiera. La vita continua nonostante tutto è il messaggio che arriva. Nonostante la distruzione del terremoto. Presenti anche le cinque suore di clausura e una preghiera particolare è per i volontari che da due mesi ininterrottamente si sono susseguiti per dare una mano, ciascuno con le proprie capacità.

Nello stesso spazio saranno ospitate anche le iniziative natalizie in calendario tra il 26 dicembre e il 6 gennaio.

Quali saranno le iniziative?

Niente di particolare: tombolate, giochi. Ma in realtà si cerca di creare occasioni per stare insieme, si vuole ricostruire quella coesione che il terremoto ha così pesantemente sconquassato.

In cinque in una roulotte

Il condominio in cui si trova il loro appartamento ha ricevuto “una botta di quelle fatte bene” dicono Francesco e Katiuscia. Hanno tre figli e da quel 30 ottobre vivono in una roulotte. Siamo a dicembre. Nelle vie interne del paese, fuori dalla zona centrale che è off limits per tutti, sono diverse le roulotte parcheggiate accanto al marciapiede nei giardini intorno alle case. E anche chi non ha la casa danneggiata non si fida di stare, di notte soprattutto, sotto un tetto di laterizio. Meglio una roulotte. Francesco e Katiuscia hanno tre figli e la più grande studia in un paese vicino. Alla mensa arrivano insieme quando i ragazzi sono usciti da scuola. Ed è lì che li incontriamo dopo pranzo.

Nessuna soluzione alternativa possibile?

“Quella che ci è stata prospettata, andare sulla costa, per noi non era praticabile. Come si faceva con il lavoro a trenta chilometri da qui e con la scuola dei figli? Da qui al mare sono almeno cinquanta chilometri. Quando ce l’hanno proposto abbiamo rinunciato, poi l’azienda in cui lavorava Francesco, lesionata con il terremoto, ha ridotto il personale e quindi ora il lavoro non c’è più. Ecco perché siamo in una roulotte in cinque. All’inizio abbiamo passato le notti in macchina, ora questa sistemazione; ma non siamo gli unici, in paese ci sono anche anziani che vivono così. La nostra casa è di recente costruzione (1995) e presenta danni consistenti. Alcuni sono strutturali altri no, ma l’interno è spaventoso; a vederla si rabbrividisce: è come se vi fosse caduta una bomba”.

Lasciano intendere che si trovano ancora in un momento di incertezza. Sono in attesa, spiegano. Non hanno fiducia che presto arrivino le casette di legno. “Non sentiamo molta vicinanza ai bisogni dei cittadini” dicono, critici verso le istituzioni. Sono pessimisti anche per le attività commerciali di alcuni loro familiari che ora con il terremoto sono ferme. “Sono nel centro del paese e sono chiuse”.

Ma tra le righe si legge un pensiero ricorrente: forse a Caldarola per loro e soprattutto per i figli un futuro non c’è più. “Per noi è un posto tranquillo, bellissimo…” ripetono, ma hanno voglia di andarsene, anche se per ogni decisione è necessario attendere. “Qui abbiamo la casa, paghiamo il mutuo, paghiamo le tasse, ma la situazione a lungo andare diventa insostenibile. Ma forse più giù, verso Tolentino, verso la costa… forse…”.

Si dicono amareggiati. Perché?

“Abbiamo capito che ci sono figli e figliastri” accusano. “Se nella fase di emergenza è filato tutto liscio, è nel dopo che qualcosa è scricchiolato, ci sono paesi abbandonati a se stessi. Le casette in legno? Si parlava di ottobre 2017 e ora siamo a dicembre. Un anno così?”. Hanno critiche per la lentezza con cui il comune interviene, ma hanno sempre parole di ringraziamento per i volontari che hanno portato qui aiuto e con la loro presenza e vicinanza alleggeriscono una situazione pesantissima per tutti. “Non ringrazieremo mai abbastanza l’Emilia Romagna” dicono Francesco e Katiuscia, “che con la sua rete di volontariato fortissima ci sta ancora vicino dopo due mesi dal sisma”.

Ricordano i giorni delle scosse forti. Rievocano la scossa del mercoledì sera, l’anticipazione di quella grossa del 30 ottobre. “Quella sera” raccontano, “è saltata la corrente, si era intorno all’ora di cena e ci è parso uno scenario di guerra. La reazione dei bambini? Il piccolo era terrorizzato, il secondo aveva già vissuto un terremoto. Ma il trauma c’è. Siamo diventati esperti di crepe. Ora quando passiamo accanto ai palazzi ne scrutiamo i muri e cerchiamo quelle a croce, le più pericolose. Mamma, mamma, una crepa a croce…”.

La mensa del campo Caldarola che accoglie chi entra con la sua stella cometa di legno, da intendere come augurio di una futura buona vita, nell’ora di pranzo soprattutto diventa un centro civico, un punto di ritrovo in cui scambiare alcune parole con le persone del paese che ancora sono rimaste e non sono state sfollate sulla costa. Qualche tavolo più in là ci sono altre persone habitué della mensa. Sono Emanuela e Paolina. Una di loro ha casa sotto il castello.

“Non so quando potrò rientrare a casa” dice. “Ora, dopo quarantaquattro giorni dalla scossa, molte persone hanno trovato una soluzione alternativa, una casa in affitto nei paesi vicini, ospitalità presso parenti, ma c’è e forte quel senso di abbandono che non ci lascia. Resta e credo che non se ne andrà tanto facilmente”.

Alla pena del terremoto, spiegano, si somma quella della perdita della casa e la preoccupazione per i genitori anziani. Sono loro a soffrire di più. La speranza è quella di ricostruire al più presto, ripartire. Però non avere più la casa significa avere la sensazione di aver perduto tutto. Gran parte della propria vita. “È vero, abitiamo altrove, un tetto sotto cui ripararci dal freddo dell’inverno lo abbiamo trovato, ma non è la nostra casa: essere ospiti non è la stessa cosa”. È questo che porta lo sconforto, la precarietà che si teme si protragga per troppo tempo, per anni.

“Sa che faccio per stare bene? Vado in paese una volta al giorno, mi accontento di vederlo da lontano, mi faccio una camminata e mi sento meglio. Per ora è così”.

Una fortuna aver lasciato il centro

A pochi metri dal campo dei volontari, nella zona industriale un bar pasticceria e panificio è la meta mattutina per un espresso come si deve. Talvolta sul tavolino si trova il giornale Il Resto del Carlino e si sbirciano le notizie dei territori del cratere. Altrove la situazione è la stessa: persone senza casa, preoccupazione per trovare un alloggio temporaneo per passare l’inverno, un alloggio che non sia solo una stanza d’albergo. Sul giornale si leggono le novità che riguardano le decisioni del governo sulle risposte all’emergenza. A Palazzo Chigi era da poco entrato Paolo Gentiloni, originario di Tolentino, e anche lui con proprietà terremotate.

Al bar c’è tempo per due chiacchiere con gli habitué del paese. Qualcuno al tavolino lo si trova sempre: impiegati per la pausa pranzo dal lavoro, gente di passaggio, volontari che passano di tanto in tanto per sperimentare i deliziosi biscotti cotti nel forno a legna, signore giovani e anziane che al mattino fanno sosta di fronte, nel piazzale dove il fruttivendolo ha trasformato a negozio il rimorchio di un camion. Un momento di sosta e due chiacchiere scambiate con cordialità. Anche questo è parte della normalità. E il terremoto è l’argomento che tiene banco più di ogni altro.

E allora la signora del biscottificio racconta di come qualche anno dopo il terremoto del 1997 abbiano deciso di uscire dal centro storico. “Il laboratorio si trovava proprio accanto al castello” racconta, “e se avessimo deciso di restare là a quest’ora la nostra attività sarebbe bloccata, oltre ai danni all’edificio. Tutti ci sconsigliavano di cambiare così radicalmente la nostra sede e di scegliere di venire in periferia. Direi che è stata una fortuna. Qui dove siamo ora la struttura ha tenuto, non abbiamo avuto danni, anche se la scossa l’abbiamo sentita. Eccome, se l’abbiamo sentita!”.

Si raccontano le storie di vita nel bar pasticceria nella zona industriale. Seduta al tavolino in attesa che arrivi il pullman c’è una donna con una grande valigia. Si trova in uno degli alberghi di Civitanova e è tornata nella sua casa per recuperare un po’ di indumenti. “Avevo bisogno di cose più pesanti di quelle che avevo portato in un primo momento. Ora se comincia a fare più freddo mi serviranno” racconta a un conoscente che invece non ha avuto la sfortuna di sfollare. La donna spera di poter tornare presto nella sua casa. Non sa ancora quando. “Mi hanno detto che andranno a fare le verifiche la prossima settimana. Lo spero” dice, e nello sguardo tutta l’angoscia che ormai detta il ritmo delle sue giornate.

Gli alberghi della costa ospitano centinaia di persone, però alcuni hanno già annunciato che presto chiuderanno e quindi per gli ospiti si dovranno trovare soluzioni alternative. Naturalmente in attesa delle casette. Che però, come si è visto, non arriveranno molto presto. Gli alberghi servono per le persone senza problemi fisici anche se anziani, i disabili invece subito sono stati ospitati in una struttura ad hoc a Montorso vicino a Loreto, sede del noto santuario che dalla collina domina la vicina costa adriatica.

Non ho più niente

Quando il lavoro al campo lo consente, il desiderio è quello di conoscere da vicino, per quanto possibile, la vita delle persone. Dalle frazioni di Caldarola la ricerca si è spinta più in là, nei paesi intorno dove la situazione è la stessa: persone che hanno perso casa e spesso anche il lavoro. È il caso dei comuni che fanno parte del parco dei monti Sibillini. Sulla strada che conduce a Visso e Ussita ci sono diversi presepi. Ogni angolo è buono per mettere una capanna e un Gesù bambino, perfino in un’aiuola spartitraffico su un incrocio. In fondo al nostro percorso, interrotto da posti di controllo e sorveglianza perché la strada attraversa centri abitati ridotti ad ammassi di macerie, c’è Ussita. Oltre non si va.

Qui a sorvegliare l’ingresso ci sono i militari. Sono alpini dell’alta Italia. In piazza c’è una tenda dove i residenti del paese devono chiedere il rilascio del pass per poter essere accompagnati a casa propria. Da mesi è così. Gli abitanti non sono tanti perché il paese d’inverno si svuota rispetto alla stagione calda, ma qualcuno che vive stabilmente qui c’è e non ha più nulla. Le seconde case sono molte, erano nuove. Molte ristrutturate. Appartengono a persone che arrivano dalle città della regione, ma anche da Roma. Pochi o tanti, per questi cittadini il dramma resta uguale. Qui è zona turistica, ci sono impianti di risalita, si fa sci da discesa e sci-alpinismo, percorsi estivi nei boschi, sentieri che portano ricchezza, e poi ci sono gli allevamenti, i prodotti locali. Accanto alla tenda per il rilascio dei permessi di entrata ci sono i pannelli turistici che illustrano le possibilità di escursionismo invernale ed estivo, oltre alle informazioni sulle ricchezze naturalistiche del parco dei monti Sibillini. Quasi una beffa ora che tutto è maceria e che anche le montagne, bellissime vette verdi ricche di muschio, sono invalicabili per le frane che il terremoto ha risvegliato.

Quella vita che si svolgeva in tutte le stagioni ora si è fermata. E poi nel corso dell’inverno le cose sono andate peggiorando perché insieme alle scosse (che non sono mai cessate anche se di minore entità) sono arrivate le nevicate, tanto copiose da seppellire le stalle, sfrattare anche gli animali e mettere in ginocchio l’economia agricola. Questa parte del dramma però deve ancora accadere mentre ci troviamo a Ussita.

In piazza, di fronte alla sbarra che blocca il passaggio dei mezzi, ci colpisce una donna: è in piedi, immobile. Da un quarto d’ora sembra una statua di cera. Si trova accanto a un’auto, ha lo sguardo fisso di fronte a sé. Ha tra le mani il manico di un aspirapolvere. L’oggetto era appoggiato sul selciato, alle sue spalle un’auto carica all’inverosimile di borse e scatoloni. Ci avviciniamo e le chiediamo se ha bisogno di aiuto.

“No” risponde. “Grazie. Sto aspettando mio figlio che con i vigili del fuoco è andato nella casa dove abitavamo fino a due mesi fa e che ora non esiste più. Ogni giorno veniamo qui, ci accompagnano lassù”. Indica la strada sopra di noi che s’inerpica sul lato della montagna. “Veniamo qui per vedere se si riesce a salvare qualcosa delle cose che avevamo”.

Dove vivete ora?

“In roulotte. Aspettiamo la casetta. Non sarà mai più come prima”.

La vostra casa si potrà salvare in qualche modo?

“Non c’è più niente da fare, dovremo abbatterla. Non abbiamo più niente”.

Così la signora ha chiuso il contatto con noi, il suo sguardo è di nuovo calato verso l’asfalto e si è chiusa in se stessa, mentre dall’altro lato della strada un giovane con alcuni abiti sulle braccia e una borsa anch’essa ricolma le sorrideva: “Sono qui, mamma. Ho recuperato qualcosa”. Ma la donna ha lo sguardo smarrito, senza speranza.

Lo scenario intorno ha un che di irreale e quasi sfottente. La bella cima del monte Vettore, verdognola di licheni e muschi, di tanto in tanto svela un filo di neve che entra nel blu del cielo: un paesaggio montano da cartolina che fa da cornice alle macerie. L’aria è gelida, ma c’è il sole, quando più giù ci siamo lasciati alle spalle la nebbia.

Si vorrebbe proseguire, ma i soldati che presidiano il paese di circa ottocento abitanti dicono che non si va avanti. Semmai si potrebbe con un fuoristrada, dicono, ma è pericoloso, le strade sono state danneggiate. Il terremoto ha attivato le frane. È tutto isolato. È tutto abbandonato.

Si raccolgono frammenti di dialoghi privati fatti in strada perché il terremoto che ti mette a terra toglie anche ogni timore di mostrarsi nel proprio intimo. È come se insieme alle abitazioni, alle pareti di casa crollasse anche il segreto dell’intimità che si sedimenta nelle abitudini della vita quotidiana delle persone. Ed è per questa ragione che la ferita è così profonda. È anche la ragione che ha spinto molti dei volontari che sono stati presenti in queste zone nella fase dell’emergenza a mettere a disposizione il loro tempo per dare una mano, per quanto possibile a recuperare un minimo senso del collettivo e dello stare insieme.

Certo, di fronte a un paese completamente smembrato, con una parte di abitanti soprattutto anziani e disabili portati a cinquanta chilometri di distanza in salvo sulla costa, la possibilità di vita sociale e civile, molto viva da queste parti, è stata ridotta quasi a zero. E certamente non sarà recuperata in breve tempo. Solo ora, mentre sto realizzando questo diario-riflessione, nonostante le difficoltà e i ritardi con cui si sta rispondendo ai bisogni materiali di un tetto sotto cui stare, a Caldarola e in tutti i paesi del Maceratese così colpito sono riprese le iniziative sociali delle associazioni e dei gruppi locali. Spinti dalla forza di resistere e soprattutto dalla determinazione a restare a vivere qui. Ma anche in questo periodo pre-natalizio i segnali che non getteranno facilmente la spugna ci sono già tutti.

Una tenda per oratorio

Un esempio è l’oratorio di cui Laura Corvini è l’anima, l’ispiratrice e la determinata sostenitrice. Lo ospita la struttura della regione Molise. Anche questa tenda ha trovato spazio nella zona industriale lontano dal centro del paese. Anche Laura non ha più casa. È una giovane donna che si è messa a disposizione per dare modo ai bambini, che con la scuola crollata in questa emergenza non hanno più il tempo pieno, di occupare i pomeriggi. In questo modo, spiega, si alleggeriscono i genitori che con il lavoro non saprebbero come fare.

Da qui l’idea di utilizzare questo spazio per un paio d’ore, dalle quindici e trenta alle diciassette e trenta, per organizzare giochi e dare spazio alla baraonda creativa che certamente fa bene ai bambini e non fa male neppure agli adulti. Il salone così improvvisato si veste di altre forme. Da gelido e buio spazio per accatastare cose diventa un palcoscenico di colori, un contenitore di storie, di voci e di confusione dove si autoinvitano anche diversi genitori. È un luogo caldo, colorato, vitale, che aiuta se non altro per alcune ore a calare il sipario sull’orrore delle macerie.

Laura non ha un minuto libero e nel magazzino tra la chiesa e la sede della polizia municipale ha attrezzato un salone dove ci sono libri che sono arrivati in dono e  giocattoli a disposizione dei bambini di Caldarola. Insieme a un’amica li stanno sistemando e catalogando per non perdere nulla. “Tutto è prezioso per noi” dice.

Nella sala a fianco è ancora in piedi il palcoscenico su cui qualche giorno prima è stata messa in scena una commedia dialettale. “Sold out, tutto esaurito per la serata”.

Le idee camminano e anche la voglia di rimettersi in piedi. Tutto serve, tutto contribuisce a ricucire gli strappi che questa situazione ha creato.

“Lavoro allo Csi di Macerata” racconta Laura che si trova con l’amica Cinzia Vinchi. “Mi occupo di sport dal 2004 e ho fatto rinascere l’oratorio che ha raggiunto la veneranda età di settantadue anni. È nel nostro Dna stare con i bambini e organizzare iniziative per loro. Ci siamo trasferiti in questo capannone per necessità. La nostra sede si trova vicino al castello e alla chiesa di San Gregorio che è danneggiata… quindi…”. E nasce dunque l’idea di programmare un paio d’ore di animazione perché anche questo serve per dare un segno di normalità in una comunità sconvolta.

Ma non è l’unica iniziativa del gruppo. Nei giorni precedenti la nostra visita è stata messa in scena una recita e accanto alla scenografia, rimasta sullo sfondo, c’è anche il seggio elettorale dove il 4 dicembre si è votato per il referendum. Qui, in questo spazio, le volontarie stanno riorganizzando la biblioteca, quella comunale è stata anch’essa travolta e per ora è inaccessibile. Ma di libri c’è bisogno e sono arrivati qui quelli che abbiamo portato da Piacenza. Tutto serve, poco o molto, per ricostruire. Tutto. Laura e Cinzia si adoperano per curare la comunità ferita, nonostante i loro problemi personali che sono uguali a quelli dei loro concittadini.

“Ora mi trovo ospitata in una casa che ha trecento anni, è piccolissima ma non ha avuto alcun danno dal terremoto. Si trova a cinque chilometri da qui” dice Laura. “Quella dove abitavo prima non è più agibile, c’è lo sgombero esecutivo perché la casa sta crollando”.

Aspettative?

“Spero che i miei concittadini reagiscano a questa situazione. Bisogna uscire dal tempo delle chiacchiere e della polemica, è l’ora di fare concretamente. Dobbiamo darci una mossa tutti quanti e svegliarci”.

È un appello e uno sprone che Laura vuole lanciare, mentre si è alla vigilia di un incontro tra associazioni del paese: sul tavolo l’intenzione di organizzare le iniziative natalizie, anche questa una normalità della vita che va reimpostata nonostante il terremoto.

“Bisogna decidere se lo si vuole fare” spiega. “Il calendario c’è e copre tutto il periodo fino alla Befana. Credo che sarebbe positivo. Mi auguro poi che tutto questo possa unirci un po’ di più; soprattutto è indispensabile comprendere che non si può delegare tutto al comune: siamo tutti di Caldarola e il paese ha bisogno di ciascuno di noi. Nessuno escluso. Quando si tratta di lavorare è necessario rispolverare la caldarolità, l’attaccamento al paese e non dare sfogo al contrasto uno contro l’altro”.

È Cinzia che si sofferma sul terremoto. “In certi momenti” dice, “si ha paura di stare tra quattro mura e si è prigionieri di una sensazione di impotenza che ci sovrasta. Pian piano ci stiamo riabituando a vivere in questa precarietà quotidiana, ma la paura sta dentro di noi. C’è. All’inizio con la mia famiglia abbiamo dormito in macchina, la preoccupazione maggiore che avevamo era proteggere il bambino”. Cinzia ricorda il terrore che ha provato quando ha visto tremare l’asfalto sotto i suoi piedi. “Le scale di casa ballavano e sembrava che si andassero a chiudere su se stesse, i bambini urlavano per la paura. Siamo usciti di casa immediatamente, via i telefonini, via la luce, sotto i nostri piedi l’asfalto vibrava. Momenti di terrore”.

Restiamo all’oratorio. Durante la settimana i volontari di  Piacenza Giuseppe Zoni e Francesco Fariselli, insieme alle crocerossine Elvia Pracucci e Maria Christina Neild, sono stati protagonisti dei pomeriggi di animazione. “Abbiamo capito che dedicarci a intrattenere i bambini era necessario e poi anche questo era un nostro compito, rientrava perfettamente nella missione di supporto alla popolazione. Abbiamo giocato, ci siamo travestiti e contribuito a rendere piacevoli i pomeriggi ad alcuni bambini di Caldarola”. Appuntamento fisso. Hanno portato un sorriso, costruito giochi grazie all’abilità con le forbici di Giuseppe che ha inventato dal nulla una forma giocosa di creatività. Un gesto non dovuto, ma venuto dall’intelligenza affiancata a tanto cuore.

La gente vuole vedere le divise

Accanto all’oratorio, alla chiesa, al container che è diventato biblioteca, c’è anche il comando della polizia municipale. Nella settimana prima di Natale prestano servizio anche due piacentini: il comandante Giuseppe Addabbo e l’agente Umberto Scarpetta. Prendono servizio un pomeriggio per i controlli di routine nel territorio di Caldarola. Anche loro, con altri colleghi di Reggio Emilia e Formigine, in questa settimana nell’ambito del progetto di solidarietà Anci a cui il comune di Piacenza ha aderito, hanno dato la disponibilità a essere presenti nelle zone colpite dal sisma.

“Abbiamo il compito di supportare l’azione di vigilanza. Facciamo un lavoro di presenza sul territorio con attività di sostegno della polizia locale e svolgiamo un lavoro coordinato con i carabinieri, oltre a essere a disposizione per le necessità che si evidenziano nel campo. La parte maggiore del nostro lavoro consiste nel controllo del territorio, nel capoluogo e nelle frazioni, dove cerchiamo di fare un’attività di prossimità. Ogni settimana siamo sei per poter fare tre turni”.

Gli agenti sono ospitati nella caserma della Forestale che si trova nel centro del paese. Una necessità legata alla sicurezza. Infatti gli agenti municipali hanno un’arma con sé e quindi non possono certamente essere alloggiati in spazi comuni con altre persone oppure in container senza avere uno spazio adeguato per custodire l’arma da fuoco.

“Siamo a disposizione” dice il comandante Addabbo, “per qualsiasi problema si ponga e venga chiesto. Una cosa è certa e lo abbiamo verificato direttamente: le persone hanno bisogno di vedere divise che girano e sorvegliano. Il timore è che tra le case abbandonate si possano aggirare gli sciacalli, pronti a ferire ancora di più nel profondo le persone già così colpite. Si tenga conto che ci sono intere frazioni abbandonate perché gli abitanti delle case più danneggiate sono ospitati ora negli alberghi della costa da Grottammare, a Martin Sicuro fino anche ad Alba Adriatica”.

Mentre ci troviamo nella frazione di Croce si sente il rombo di un motore. È un’auto che porta la targa di una città toscana, a bordo due persone. Gli agenti li fermano per un controllo, anche perché non si comprende che cosa siano venuti a fare in un paese completamente deserto. Uno di loro non ha i documenti e adducono una motivazione poco credibile: avevano un appuntamento con una persona che però non è arrivata. Se ne vanno, ma la segnalazione viene inviata immediatamente ai carabinieri del paese. Chissà come è finita la storia.

Ancora un altro episodio accaduto in uno dei consueti giri di ricognizione. “Una sera” raccontano, “stavamo uscendo dalla zona rossa, quando ci avvicina la signora che gestisce il bar prima della transenna che blocca l’accesso al centro storico (è l’unico per il momento aperto nel centro del paese) e ci spiega che da un bel po’ di tempo due persone stanno parlando concitatamente con un anziano del posto. Sono due sconosciuti e ha il sospetto che sia in atto un tentativo di raggiro. Noi ci avviciniamo” spiegano gli agenti piacentini, “chiediamo al gruppetto se va tutto bene e a quel punto gli sconosciuti si affrettano a salutare e se ne vanno dicendo che s’è fatto tardi”.

Frazioni da sorvegliare perché pressoché deserte. In realtà non è del tutto esatto dire che nelle cinque frazioni, Pievefavera, Croce, Vestignano, Valcimarra e Bistocco, non sia rimasto nessuno. Qualcuno c’è: ci sono i gatti; soprattutto a Croce si sono formate le colonie che, come nel centro storico, vagano tra le vie silenziose, spaesati, in cerca di cibo. Hanno tutti il collarino, segno che non sono randagi, ma hanno avuto una casa di riferimento che oggi non trovano più. “È per questo che ogni volta, a ogni giro, ci attendono e arrivano per avere il cibo che portiamo sempre sulla macchina. Poi tornano nei loro pertugi ricavati negli anfratti di macerie, nelle case diroccate” dicono Addabbo e Scarpetta.

Belli, bellissimi testimoni del silenzio e della disperazione che arriva dalle antiche pietre intorno a noi e di cui loro conoscono ogni ombra. Frazioni arroccate sul monte. In alcune di queste ci sono solo seconde case. Passeggiando nei viottoli ci sono le tracce di un autunno già passato da tempo, ma nei vasi sopravvivono fiori e piante che da noi in pianura ci sogniamo. Ulivi, ulivi, ulivi ad ogni angolo. Da qui si arriva a Foligno dopo sessantaquattro chilometri e Camerino è a soli diciotto chilometri.

Arriviamo a Valcimarra. I nuclei abitati in realtà sono due. In basso Valcimarra e in alto Colle, arroccato sul monte. Con la chiesa che è stata pesantemente danneggiata dalle scosse, non si passa più sulla strada che si trova accanto. Anche qui, ci dicono, per lo più sono case estive. Siamo a quarantatrè giorni dal sisma e ancora non si è visto nessuno, spiegano alcune persone a cui gli agenti piacentini chiedono se hanno bisogni o necessità particolari. Nulla. Per ora si tira avanti e si aspetta. Lassù qualcuno è rimasto. L’acqua per la gestione quotidiana della vita la portano con le cisterne perché nell’acquedotto non c’è pressione.

Melissa e i suoi Border Collie

Anche nelle frazioni il terremoto ha colpito nell’anima. La storia si ripete. Anche chi non ha avuto danni ha paura. E ha trovato la soluzione provvisoria per far indietreggiare l’ansia che ti chiude la gola. La soluzione è una casetta di legno prefabbricata nel cortile di casa. Ce ne sono diverse nei giardini intorno alle case padronali rimaste disabitate anche se non danneggiate. Non ci si fida.

Così Melissa, una giovane donna di Valcimarra che alleva Border Collie e che, pur non avendo avuto la casa danneggiata, ha deciso di non stare là dentro. Racconta quelle due scosse, prima mercoledì 26 ottobre e poi domenica 30 ottobre. Gli occhi le si inumidiscono come se stesse realmente rivivendo quel momento. “È stato… è stato… un apocalisse. Non sai più dove sei, ti chiedi se stai in un incubo, hai il dubbio di sognare. Attenzione: con un grado Richter 5.2 la luce va via e ti cade tutto addosso, calcinacci, suppellettili. Credo che si possa paragonare a un bombardamento, con un prima e un dopo. Senti le cose che si mettono a rotolare per terra, i mobili che si staccano dalle pareti e che, se sei fortunato, riesci a schivare: tutto questo succede quando già il terremoto è arrivato ed è in atto. Ma è prima, il modo in cui si annuncia che fa gelare il sangue. Hai l’impressione vera che tutto imploda e da un momento all’altro nulla ci sarà più. La scossa è preannunciata da un boato e poi quando finisce si sente un rumore diverso, una specie di vvvvuff.  Senti questo rumore e poi il silenzio, ultimi cocci che cadono, mattoni che ancora si staccano. Tutto è buio, qualche tubo si è rotto ed esce acqua. Non sai più dove ti trovi. Ma è passato. Senti che le braccia hanno ancora sensibilità, gli occhi vedono ancora, respiri. Ci sei. La ‘bestia’ non ti ha preso”.

Perché le casette? chiediamo.

“Le casette le abbiamo prese subito. Qui in casa non ci si entra volentieri; meglio dormire fuori, per un po’ almeno”.

Andarsene? Non ci pensa per niente.

“Sarebbe come dargliela vinta e non vogliamo farlo. Staremo qui. Abbiamo le nostre tradizioni da difendere e da coltivare, chi lo farebbe sennò? Certo che una scossa di 6.5 sotto i piedi non la si augura al peggior nemico”. Melissa mette l’accento sulla generosità e la mobilitazione che ha raccolto per i suoi cani. “Immediatamente” racconta, “sono arrivate cucce, cibo per animali da tutta Italia. Che dire? Nonostante tutto sono ottimista”.

Ricorda il 1997, il 2009: “Di terremoti siamo esperti, noi cittadini di Caldarola; dal 1703 conviviamo con questa situazione, ma andarcene no. Per niente, è come dargliela vinta. Certo psicologicamente stai a terra e per diverso tempo molte persone in attesa di sistemazione hanno dormito in macchina”.

Melissa indica un piccolo paese, in alto sulla montagna. Là c’è la chiesa che incombe sulla strada e ci si passa a lato. Ancora non s’è visto nessuno e sono passati quarantatrè giorni dalla scossa. Mette in chiaro: è vero che molte sono seconde case, ma non s’è visto nessuno. E chi abita stabilmente qui o ha la casa nel giardino si arrangia.

Lasciamo Melissa e proseguiamo il viaggio. Ci imbattiamo nella signora Lorenza. La casa paterna è crollata, ma la sua non ha avuto danni. Ci spiega i luoghi, le caratteristiche e le specialità, come la Vernaccia marchigiana di cui tutti parlano, esaltandone le qualità e la bontà. Vino, ulivi con uno degli olii più rinomati da queste parti, proprio per la particolarità del terreno impervio e roccioso. Anche questo è un aspetto rilevante per la conta dei problemi. Tanto che è stato aperto un tam tam solidale anche in rete per spingere le aziende agricole danneggiate e per far circolare il più possibile i loro prodotti, dal formaggio all’olio agli ortaggi. È lungo l’elenco degli agricoltori, soprattutto nell’area del parco dei Monti Sibillini, che si dicono disposti a consegne anche a distanza, naturalmente se la spedizione riguarda un prodotto non deperibile, altrimenti si consegna solo localmente.

Un segnale che è andato a segno se due signore provenienti dal Lazio hanno bussato un giorno alla porta del container-segreteria per esternare una protesta: “Siamo arrivate qui per dare una mano comprando i prodotti locali con i quali volevamo fare i regali di Natale, ma non abbiamo trovato nessun punto vendita e nel paese non si può andare” hanno protestato candidamente, ma fermamente.

“Apprezzabile, gentili signore, ma non è tempo di negozi aperti nell’area storica. È tutta zona rossa e inaccessibile. Se volete dare una mano forse è meglio avere qualche indirizzo dei contadini che producono formaggio, olio, ortaggi”. Meglio non le si poteva indirizzare.

L’episodio ci ha fatto sorridere un po’, ma ci ha anche scaldato il cuore pensando a quanta generosità e disponibilità verso gli altri teniamo nascosta dentro di noi senza neppure saperlo. Quelle signore, evidentemente cittadine, non certo abituate a trattare emergenze, si erano spinte in una domenica pomeriggio di dicembre insieme al cagnolino, un simpatico yorkshire che non pensava ai regali di Natale quando ha visto dietro la siepe muoversi il gatto Giulio sempre alla ricerca dell’ultimo boccone.

Anziani sradicati

Paesi piccoli, coesi tra loro. Custodi di tradizioni profonde e casseforti di cultura. Paesi abitati fin nel più piccolo pertugio e molti gli anziani. Uno dei problemi per questo terremoto lo pongono gli anziani. Le sorelle della croce rossa di Cesena, Elvia Pracucci e Maria Christina Neil, con Giorgio Sgroi della croce rossa di Parma, hanno fatto visita quotidianamente agli anziani ospitati sulla costa. Qualcuno addirittura anche ad Alba Adriatica che già è Abruzzo.

“Per loro una tragedia” dicono. “Non hanno più una casa e glielo leggi negli occhi. Poteva anche essere piccola la casa di residenza, ma era la loro casa. Il loro focolare”.

Raccontano delle situazioni più diverse con cui sono venuti in contatto. Variano ogni giorno, portando nuovi problemi da affrontare con la gran difficoltà a risolverli. Perché se i problemi pratici, quando ti è crollato tutto intorno, paiono insormontabili, quelli che provengono dall’intimo ferito delle persone sono ancora più pesanti da affrontare. Oltre all’età, il discrimine è anche l’invalidità; molti di loro hanno problemi di salute anche gravi e, in questo caso, naturalmente se la vita è dura in tempi normali immaginiamola quando tutto è crollato intorno a te e soprattutto quando non hai più punti di riferimento a cui ancorare la tua mente.

A dicembre, ad esempio, tra quelli visitati dagli operatori della croce rossa, c’erano due anziani coniugi che vivevano in una roulotte dove la moglie, come faceva quando la casa era ancora abitabile, assiste in pochissimo spazio il marito malato di Parkinson. A dicembre la situazione era ancora questa, anche se in quelle settimane si erano attivati per avere una casetta; ma a una settimana da Natale la situazione non era ancora risolta e evidentemente restava molto precaria.

Tantissime, raccontano i volontari della Cri, le persone che pur avendo la casa agibile non se la sentono di abitarla e se ne stanno nella roulotte parcheggiata nel giardino o dormono anche nell’auto, se non c’è il camper o la roulotte. Chiediamo perché e ci sentiamo rispondere: “Là non possiamo più stare”. Sono queste le ferite dentro, quelle più gravi e difficili da rimarginare. Che cosa serve? È chiaro, spiegano i volontari, che ci vuole una presa in carico costante e continua, ma questo non può essere garantito, ancora non è chiusa la fase di emergenza, i volontari cambiano di settimana in settimana…

Sono per lo più anziani anche i frequentatori dell’ambulatorio medico che si trova nel campo. Qui il dottor Giovambattista Lomanno parla di condizioni di precarietà assoluta. “Ci manca una sala d’attesa e le persone devono aspettare all’esterno. Se uno va dal medico di sicuro non sta tanto bene e che fa, viene qui per ammalarsi? L’ambulatorio naturalmente ce l’ho” segnala il dottore, “ma si trova in un palazzo lesionato e non lo si può utilizzare”. Non c’è solo il terremoto che produce crolli e distruzione come nemico da combattere. Ce n’è un altro, è la paura: “Vincere lo stato di paura non è semplice”.

Quali le azioni più importanti?

“Certamente tenere qui la popolazione, è il primo impegno per evitare lo spopolamento, ma mi domando: che cosa è stato fatto per organizzare il ritorno?”.

È l’interrogativo che in tanti si sono posti in questo momento, a due mesi circa dal terremoto, e che riecheggia anche oggi. È come un’ombra che si porta con sé il tempo che passa insieme alle difficoltà per dare risposte concrete ai problemi delle persone. Del resto sono cronaca di queste settimane le proteste per i ritardi dettati anche dalla conformazione del territorio tutto montuoso, da interi paesi antichi, e quindi le lungaggini che toccano perfino la rimozione dei detriti dalle strade con l’abbattimento degli edifici che non possono più essere recuperati.

Lo ha detto chiaro Rosa Piermattei, sindaco di San Severino, durante gli stati generali della protezione civile promossi dalla regione Emilia Romagna, che hanno visto la partecipazione dei sindaci marchigiani. Solo con le demolizioni si dà il via alla ricostruzione. In questo, tra i comuni colpiti dal terremoto, San Severino ha il primato. Sono stimate in duecentottantamila tonnellate le macerie da rimuovere in questa zona, si stima che complessivamente siano un milione di  tonnellate i detriti totali.

Presto, ci aspetta P.

Gli anziani, anche qui, sono tanti. Molti vivono soli e hanno basato gran parte della loro qualità della vita sui rapporti tra vicini, sul fatto di poter sempre contare su quelli della porta accanto in caso di bisogno.

Più di tutti gli altri, adulti e anche bambini, a soffrire della disgregazione che il terremoto ha prodotto nel loro habitat urbano sono gli anziani. E sono loro che per la maggior parte sono ospitati negli alberghi della costa. Sull’aspetto psicologico ha puntato molto l’intervento della protezione civile emiliano-romagnola durante l’azione di supporto dato alla popolazione.

Un progetto non facile da realizzare perché il principio della rotazione dei volontari difficilmente può conciliarsi con la necessità di relazione che si instaura tra le persone che esprimono un bisogno e l’operatore che si mette a disposizione per affrontarlo, approfondirlo e dare sostegno. Tutto questo richiede tempo, se non altro per sedimentare un rapporto di conoscenza e di fiducia. È dalla relazione di fiducia che si può costruire una ripresa.

Il supporto alla popolazione è parso un punto fondamentale su cui ha puntato l’agenzia regionale di protezione civile nel progetto di emergenza per Caldarola. I volontari attivati per questo scopo, di cui facevano parte i piacentini Francesco Fariselli e Giuseppe Zoni per la pubblica croce bianca di Piacenza, Giorgio Sgroi per la Cri di Parma, le sorelle Elvia Pracucci e Maria Christina Neil della croce rossa di Cesena, hanno compiuto un lavoro incessante durante tutta la settimana, completato poi con i briefing di fine giornata durante i quali, con un confronto anche con i rappresentanti regionali del campo, l’obiettivo era quello di trovare un modus di comportamento che potesse essere la base di partenza per i volontari che sarebbero arrivati dopo.

Il loro lavoro aveva radici profonde. Non era soltanto fornire un supporto materiale alle persone, era quello soprattutto di fare sentire l’umanità e la vicinanza in un momento in cui tutto per loro era sprofondato. E non solo le pietre della loro casa. La ricostruzione inizia dalla rimozione delle macerie lasciate dal terremoto, e se quelle delle abitazioni si misurano in metri cubi di calcinacci e mattoni, quelle interiori si misurano con altri parametri: dalla riconquista della fiducia alla ripresa delle forze, alla presa di coscienza che la vita va oltre le cose che si sgretolano e che parte dalle persone stesse. E a tutto questo hanno cercato di rispondere dando tutto se stessi gli operatori che abbiamo conosciuto al campo di Caldarola nella settimana prima di Natale.

Le due crocerossine provenienti da Cesena, Elvia, Maria Cristina insieme a Giorgio tutti della Cri, attivati dalla regione, avevano il compito specifico di svolgere colloqui con le persone per valutare un supporto psicologico sia per gli anziani sia per i bambini, anche se la ferita più profonda la portano senza dubbio gli anziani. Quando perdi tutto, lo strazio più profondo lo sente chi ha una vita alle spalle e sono gli anziani che, dopo le scosse, non riconoscono più i loro luoghi e soprattutto hanno perduto ogni riferimento, se hanno avuto la casa distrutta, degli oggetti della loro vita. Ecco perché anche un quadro, una brocca, un ritratto può essere fondamentale per riallacciare il filo spezzato con la propria vita passata. Più semplice per i bambini. Anche se il trauma del rumore della notte che porta via il tuo letto, della fuga per cercare salvezza lontano dalle vie strette del paese, resta anche per loro un segno che non si cancella immediatamente.

Nel gruppo di supporto anche i piacentini Giuseppe e Francesco che hanno lavorato in stretto contatto con le sorelle e con Giorgio della Cri di Parma. Si sono inventati giocolieri, prestigiatori, grazie all’abilità di Giuseppe di costruire dalla carta sagome e giochi per riempire di sorrisi l’improvvisato oratorio del paese. La loro missione è quella di accompagnare a scuola una ragazzo disabile e di riportarlo a casa, il loro mezzo infatti è attrezzato per il trasporto di carrozzine e quindi avrebbe potrà essere utile anche per il trasporto di emergenza di anziani del paese in caso di necessità. Inviati a Caldarola con la funzione di soccorritori hanno fatto ben più del loro lavoro di missione.

“È un fatto che a R…, quando sentiva arrivare il pulmino e sapeva che avrebbe trovato Giuseppe e Francesco, si stampava un sorriso sul viso che non dimenticheremo mai” hanno segnalato i compagni di lavoro dei due piacentini inviati a Caldarola. È chiaro a tutti che loro hanno fatto molto di più di quello che ci si aspettava e di quello che prescrivevano le regole d’ingaggio. Ed è un bene che sia così.

Il lavoro che nella missione del volontario ti viene assegnato non sta in compartimenti stagni e finiti i gesti e i compiti assegnati non fai più nulla. Non è così che funziona il volontariato. Non è un compito che si esaurisce in un arco temporale e per determinate incombenze e non per altre. Ti trovi in una situazione difficile, con tante sfumature di dolore e di preoccupazione, ed è quindi una ricchezza se, oltre al compito assegnato, il volontario dà anche pezzetti di sé. Si tenga presente che il senso del lavoro che si fa, oltre all’aiuto materiale, è anche quello di rendere lievi i giorni, le ore o anche, perché no, solo i minuti del giorno.

“Le macerie si mettono a posto, prima o poi, ma il cuore della gente non lo recuperi, almeno in breve tempo”.

È questa la convinzione di tutti i volontari che di volta in volta entrano in contatto con i problemi reali, macroscopici, con cui la gente di Caldarola è costretta a misurarsi. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, minuto dopo minuto. E c’è anche l’ansia dei volontari di voler essere d’aiuto in ogni bisogno piccolo o grande. A volte si ha l’impressione di essere su una ruota che gira a vuoto e non solo non procede, ma non coglie nel segno.

La macchina dei volontari è forse l’anello più complesso del meccanismo perché deve armonizzare il lavoro di persone diverse che appartengono ad associazioni diverse e che agiscono in un luogo del tutto estraneo e con una serie enorme di falle da sistemare e con cui rapportarsi. Questo tanto più in una fase di mezzo, quando i momenti caldi sono alle spalle, e si apre la fase della normalizzazione che però stenta a materializzarsi. Ed è in questo momento che si mette in evidenza il bisogno del supporto psicologico. È per questo che il senso vero dell’essere volontario è contenuto in una frase che apre questo volume e che mi ha detto uno dei volontari piacentini della Pubblica assistenza: “Attenzione a non perdere il valore umano: il volontariato sta in piedi per questo, se togli l’umanità cade tutto l’impianto…”.

Tra i compiti materiali di Giuseppe e Francesco, a Caldarola per la pubblica piacentina, anche quello di consegnare le pietanze (colazione, pranzo e cena) a un signore che abita poco fuori Caldarola, sulla strada oltre Caccamo, e che per ragioni di salute non può arrivare da solo alla mensa del paese. Così ogni giorno, tre volte al giorno, la consegna a domicilio del pasto a cui partecipa anche l’assistente sociale.

Quello con P. è diventato molto di più di un incontro di servizio. A loro spese hanno montato un faretto esterno all’abitazione. “Così quest’uomo, se quando è buio vuole mettere il naso fuori, almeno non cade o inciampa” hanno spiegato. Non hanno seguito il percorso ufficiale: troppo burocratico, se lo avessero fatto sarebbe finita la nostra settimana e il faretto non sarebbe arrivato… “L’anziano faticava a camminare, durante la scossa era in casa, i muri hanno retto, ma i mobili si sono messi a ballare e uno gli è caduto addosso e ora ha dolore alla gamba. Al di là del sostentamento” spiegano Francesco e Giuseppe, “quest’uomo ha bisogno di parlare, di raccontare, di sentire calore umano vicino a sé”.

Per loro è diventato un appuntamento fisso e così ogni sera il rientro al campo slitta sempre più avanti rischiando di perdere anche l’ultimo giro della cena dei volontari. L’incontro con P. è lo svelarsi di una vita di una persona anziana, sola, che con loro ha trovato amici con cui parlare. “Quel signore ha bisogno di parlare. Si racconta quel tanto che basta per suscitare la nostra curiosità e il nostro interesse, poi chiude lo scrigno dei suoi ricordi e rimanda alla prossima puntata”.

Magistrali, Giuseppe e Francesco, nel portare P. a ricordare la sua storia. Lo storytelling che si è avviato, una puntata ogni giorno, dà a quell’uomo alla soglia degli ottant’anni la grande occasione di rivivere i momenti più belli della sua vita, quando dalla Sicilia è arrivato al Nord e poi nelle Marche ha conosciuto la moglie e qui ha messo le radici.

“Abbiamo fatto il possibile per portare allegria e vicinanza alla gente di un paese distrutto che si appresta a vivere il Natale senza casa. Una bella esperienza” dice Giuseppe Zoni. “A volte, incontrando tante persone di questo paese, mi sono accorto che è più importante l’ascolto del gesto stesso”.

PARTE TERZA

Cosa resterà

Le pietre raccontano

Se il centro storico

muore, muore Caldarola

Ci vorranno mesi, anni perché tutto possa tornare come prima. Ammesso che non prevalga la voglia e il desiderio di andarsene, di ricominciare da un’altra parte. Per diversi giorni, settimane e mesi questo è stato il sentire di tante persone e la preoccupazione principale di tutti, perennemente alle prese con nuove scosse che anche il 2017 si è portato dietro. L’interrogativo è: restare o non restare in una terra che non decide di stare ferma?

L’interrogativo su che cosa si potrà ricostruire, e soprattutto in quanto tempo, non solo a Caldarola, ma in tutto il centro Italia devastato, resta sullo sfondo come un incubo.

Lo hanno detto prima di tutto i sindaci marchigiani dal palco della ‘Festa per i volontari’ che l’assessorato alla protezione civile dell’Emilia Romagna ha organizzato a fine maggio; lo stesso commissario Vasco Errani ha parlato della necessità vitale per la sopravvivenza dei territori di dare prospettive alle comunità colpite oltre a sottolineare le difficoltà negli interventi, legati anche alla conformazione del territorio e al fatto che a essere stati colpiti sono i centri storici di tutti i paesi. Quindi la domanda: che cosa resterà? è più che mai attuale.

A dicembre la situazione appariva disperata e si è aggravata in gennaio con le nevicate che hanno infierito ulteriormente e appesantito le lentezze nel riprendere i fili della situazione. E nei primi mesi di quest’anno, con la primavera, le segnalazioni ferme e preoccupate dagli amministratori non sono mancate. Note le prese di posizione del sindaco di Caldarola, Luca Maria Giuseppetti, riguardo alla consegna delle casette.

“Il fabbisogno stimato è di circa centoquattordici-centoquindici casette” aveva dichiarato all’Ansa a marzo. “Se le aree sono state individuate, i lavori di urbanizzazione devono cominciare e il sogno di Caldarola 2.0 accarezzato durante l’inverno sembra allontanarsi sempre di più”.

Anche sulla ricostruzione organizzata su base provinciale il sindaco aveva espresso riserve: “Chi decide deve vedere quello che succede, non gestire le cose da lontano”. E quindi il grido di allarme: “Non basta aver salvato vite umane, aver portato in luoghi sicuri le tante opere d’arte dal luogo in cui Simone De Magistris dipinse i suoi capolavori. Se il centro storico muore, muore Caldarola. Ora il centro storico è diventato zona di transito per mancanza della strada su cui sono state espresse intenzioni, bozze di progetto, ma nulla di concreto. Prima del sisma nelle vie passavano cento auto al giorno, ora ne passano novecento. Il teatro è rimasto in piedi, ma con tutte queste auto non so se ce lo perdiamo”.

Salvare Caldarola, la sua storia, le sue tradizioni quindi è un progetto molto più complesso dello stesso lavoro di emergenza che ha coinvolto migliaia di volontari provenienti da tutta l’Italia.

Una finestra vale la pena aprirla sul salvataggio delle opere d’arte custodite nelle tante chiese ed edifici storici e naturalmente nel cinquecentesco castello Pallotta, ora chiuso, che fu costruito alla fine del Cinquecento per volere del cardinale evangelista Pallotta. Un corpo di fabbrica con cui si trasformò l’intera struttura urbanistica che il paese conserva ancora. Da Napoli già a dicembre il nucleo dei carabinieri dei beni artistici ha lavorato alacremente per mettere in sicurezza il notevole patrimonio d’arte, tra cui dipinti e oggetti sacri di grande pregio, custoditi anche nella chiesa di San Gregorio annessa al monastero delle suore dell’ordine delle canonichesse regolari lateranensi.

Tra gli oggetti portati in salvo crocefissi lignei e una serie di tabernacoli di provenienza umbra. Complessivamente in questi mesi sono state portate in salvo seicento opere d’arte di grande valore. Un patrimonio d’arte molto diffuso, non conosciuto, che con il terremoto si è svelato ed è emerso per essere salvato. Arte di ogni genere, dalla pittura all’oreficeria al ricamo. Oggetti e preziosi custoditi nelle chiese e nei conventi danneggiati da cui sono emerse le tele ricamate, le stesse che sono riprodotte nei quadri del Cinquecento-Seicento, ma anche oggetti d’oro e d’argento. Veri giacimenti di cui non si conosceva l’esistenza, almeno in queste dimensioni. E gran parte di questo patrimonio è stato salvato, a detta degli esperti che da mesi stanno lavorando nelle zone dell’immenso cratere.

Ma torniamo a dicembre 2016.

In questo primo giorno a Caldarola, sabato 10 dicembre 2016, il paese ci sembra appisolato, solo e abbandonato dai suoi abitanti. A poche centinaia di metri dal campo della Protezione civile se ne sta appollaiato sulla collina in attesa che la macchina dell’emergenza si occupi anche delle sue ferite. Quelle pietre abbattute, quegli edifici spezzati, le storie che in essi le persone hanno vissuto è come se si fossero coalizzate e coralmente abbiano lanciato a noi un richiamo: “Venite, guardate, osservate con quanta violenza siamo stati messi in ginocchio”.

Quel richiamo lo cogliamo, e in serata andiamo a osservare. Da lontano, però. Aggiriamo il paese su una strada periferica e da quell’osservatorio si svela buio e silenzio. Unici abitanti della notte i vigili del fuoco. Stazionano ai presidi d’accesso, affiancati dalla polizia municipale di varie città. Tra i loro compiti: impedire che qualcuno entri e metta a rischio la propria vita oppure abbia intenzioni di saccheggiare le abitazioni abbandonate. C’è da stare in allerta anche per tranquillizzare i cittadini.

Il paese è al buio, ma è come se ci parlasse a distanza. Come se le pietre di cui sono composti gli edifici prendessero la parola per raccontare la loro storia, il punto di vista delle pietre che da secoli portano il segno della quotidianità di Caldarola. Così ci immaginiamo le parole delle pietre, dalle quali arriva anche l’eco di quelle dei paesi vicini travolte dalla stessa furia.

La storia che ci raccontano quel sabato sera, come un incubo, inizia così: “…Vedere le persone alzarsi, far colazione, ascoltare la radio con le ultime notizie, uno sguardo a face book, un tweet, portare i bambini a scuola, comperare il giornale in edicola, sorseggiare un caffè al bar, andare al lavoro, ritrovare i colleghi e la solita vita quotidiana. Sotto sulla strada, di tanto in tanto, osservare gli incontri tra amici e ascoltare i progetti per un fine settimana divertente verso il mare a poche decine di chilometri da casa oppure in inverno una ciaspolata nella zona del monte Bove o del monte Vettore. Un quadro di vita normale. Vita di tutti i giorni. Questa era la normalità” ci spiegano le strade deserte di Caldarola, Visso, Ussita, Camerino, San Severino. “Una normalità lasciata alle nostre spalle quando in ottobre, prima il 26 e poi la domenica 30, questa terra ha tremato. Tanto forte da lacerare i nostri storici tessuti urbani e da ferire nel profondo l’anima delle persone. A Caldarola il comune non è più agibile, il bellissimo castello Pallotta che ha tracciato le linee urbanistiche di questo paese è lesionato pesantemente, molte chiese hanno le strutture portanti crollate, le attività commerciali, pizzeria, albergo, negozi hanno i muri interni sgretolati. Visso non esiste più, come Ussita. Non si vendono più giornali qui, bisogna andare a Caccamo, un paese poco sopra, colpito sì, ma non in modo così potente”.

Dall’incubo della sera alla realtà del mattino dopo, quando la zona rossa si svela e ci accoglie al suo interno. È domenica 11 dicembre, il cielo è tanto terso che fa contrasto con la devastazione intorno a noi.

La domenica, anche d’inverno, qui la vita si srotola sulla piazza con il vocio dei bambini, l’abbraccio di chi si rivede dopo una settimana di lavoro in città e si appresta a passare la festività in famiglia. Sono diretti a casa dopo la messa o l’appuntamento al bar e portano il vassoio di paste per il pranzo della domenica in casa. Tutto questo lo si respira come stesse avvenendo, è come se fosse rimasto intatto, immobile, fermo. È come se dai muri delle case uscissero fuori le immagini, i quadri di vita familiare spezzati irrimediabilmente quella domenica mattina.

Il centro è vuoto. Drammaticamente silenzioso.

Ci accompagnano i vigili del fuoco (arrivati da tutta Italia e in questo momento, durante il nostro soggiorno, in servizio quelli di Pesaro-Urbino) e il responsabile del campo della colonna mobile dell’Emilia Romagna, Marco Bacchini. I vigili del fuoco hanno il campo base ai limiti della zona rossa, a loro si rivolgono i cittadini che hanno la necessità di entrare nella loro casa per recuperare oggetti, indumenti necessari per la vita quotidiana. Lo stesso copione si ripete in tutti i paesi del cratere del sisma.

Nessuno più padrone a casa propria. Usiamo tante volte e impropriamente questa espressione, in questo caso è proprio così, drammaticamente così. Dire zona rossa e dire l’intero paese è la stessa cosa anche se, come ci fanno notare, rispetto ai primi giorni i bordi dell’area si sono un poco ridotti perché alcune abitazioni sono state verificate e non correvano rischi e quindi è stato concesso agli abitanti di far ritorno, ma molti non si fidano e la notte cercano un riparo più sicuro: dall’automobile sulla strada alla roulotte, per chi la possiede. I muri di mattoni, il bene rifugio per tanti, non rassicurano, anzi destano ansie e incertezze. Anche se la zona rossa è stata ridotta, di fatto comprende ancora la gran parte del centro storico dove vive la maggior parte degli abitanti e in cui troneggia il magnifico castello Pallotta che da solo faceva trentamila visitatori all’anno. Lo ripetono con orgoglio gli abitanti di Caldarola, e ora…

Nell’area si trova anche il convento delle suore di clausura dell’ordine delle canonichesse regolari lateranensi. Al momento della scossa di domenica si trovavano nel convento di Santa Caterina e si sono nascoste in cantina. Non hanno avuto il coraggio di uscire e cercare aiuto perché, secondo il loro sentire, dovevano stare nascoste alla vista per non tradire il voto di clausura. Sono andati a salvarle e sono state ospitate a casa di privati e all’inizio dell’anno sono ritornate a Roma.

Testimonianze storiche, residenze private, edifici civici e religiosi, tutto è transennato perché le loro strutture sono diventate ragnatele di crepe, quando non sono crollate. Colpito il municipio, il castello e i tanti edifici di valore architettonico di cui è disseminato il paese e poi le chiese del capoluogo e delle frazioni che sono quindici e tutte pesantemente danneggiate. Ce lo segnala monsignor Vincenzo, il parroco. Così anche i cimiteri sono tutti lesionati. Segnala poi la cappella dei santi del rosario della chiesa di San Gregorio e Valentino, dipinta da Augusto Mussini detto fra’ Paolo. Affreschi di cent’anni fa composti da decori liberty che rappresentano un unicum: il solo e unico liberty religioso esistente. Per questo il sindaco Luca Maria Giuseppetti ha lanciato un appello per un gemellaggio con Reggio Emilia (di cui Mussini era originario) per salvare la chiesa e gli affreschi che, visti i danni riportati, rischiano di essere perduti per sempre.

Con il centro della vita civica chiuso, quella che era anche una non trascurabile fonte di sostentamento per gli esercizi è al tappeto. Qui infatti c’erano due alberghi e due ristoranti che ora sono chiusi, e due banche, per tacere dei tanti negozi, da quelli dei prodotti tipici all’abbigliamento rimasti spogli con i manichini nudi nelle vetrine. Un bar e un piccolo supermercato sono gli esercizi rimasti aperti nel paese e si trovano all’esterno della zona rossa. Alle porte del centro antico ci sono le macerie della scuola elementare. Non può essere riparata. Ormai è arrivata al capolinea. Sventola  ancora una bandiera d’Europa, però ripiegata su se stessa. Quella italiana i volontari, all’indomani della scossa, l’hanno recuperata e issata sul palo del campo giù nella zona industriale dove ogni mattina, adesso che sono di turno gli alpini, si fa l’alzabandiera.

La scuola poi nei mesi successivi sarà abbattuta e ricostruita. È stato indispensabile farlo perché accanto, unita da uno stesso muro, c’è l’edificio delle medie che è sì rimasto in piedi perché era stato ricostruito dopo il terremoto del ’97, ma la scuola elementare confinante lo metteva  a rischio. È un miracolo se non si è compiuta una strage di bambini con la scossa che ha scelto un giorno senza lezioni per farsi sentire.

“Se non fosse stato un giorno festivo non osiamo pensare cosa sarebbe potuto succedere” dicono tutti, “perché la scuola ha ceduto sopra la porta d’ingresso dove ogni mattina entravano i bambini e quella più forte è stata alle sette e quaranta, quando lì davanti di solito ci sono ancora bambini che si affrettano per  non far tardi all’inizio delle lezioni”. La scuola aveva retto fino alle scosse precedenti, ma quella mattina il “boato sordo” che ha sconvolto il paese se l’è presa. Quel breve periodo di vacanza intorno alle feste dei santi ha probabilmente salvato molte vite.

C’è da sottolineare poi che l’avvisaglia della scossa grande, qui a Caldarola e in tutto il maceratese, l’avevano avuta il 26 ottobre, un mercoledì sera. Fu in quel momento che molti decisero di non dormire più in casa. Quindi, quella mattina di domenica 30 ottobre, molti non erano tra le loro quattro mura domestiche che hanno ceduto sotto la violenza della terra, salvandosi in questo modo la vita.

Da quella scossa una devastazione. Un centro colpito pesantemente con le abitazioni non agibili nella zona rossa e con oltre il cinquanta per cento delle case ritenute inagibili fuori dalla zona rossa.

Palazzi antichi con interni di pregio, chiese con affreschi importanti devono restare vuoti, disabitati, quasi come inanimati. Il terremoto a volte provoca un effetto domino: anche le case non danneggiate spesso sono inagibili perché le crepe di quelle vicine potrebbero essere letali. Nelle strade deserte del paese le foglie secche delle querce dei boschi intorno sono ammonticchiate negli angoli, spinte dal vento: il segno che non c’è più vita in questo paese dove domina il silenzio.

Quando si arriva in piazza è un pugno allo stomaco. Una piazza da queste parti è più che mai il centro della vita urbana, civica, il palcoscenico dove vanno in scena le tradizioni medievali. C’è tutto sulla piazza. Ora solo il silenzio e il ricordo di quel vocio di bambini e adulti che indugiavano a scambiarsi quattro chiacchiere dopo la messa della domenica. Di tutto questo è rimasta una debole eco. L’eco della vita di Caldarola.

Ai margini della zona interdetta, approfittando della domenica e del tempo clemente (le bufere di neve arriveranno nei mesi successivi creando ulteriori problemi alla vita di persone già in ginocchio) famiglie con bambini che indicano quella casa o quell’altra. Si afferrano frammenti di conversazione in cui si raccontano dei sacrifici che sono stati fatti per ristrutturare quella vecchia abitazione con il risultato di ottenerne una che non avrebbe sfigurato su una delle riviste più prestigiose.

“Hanno usato i materiali più moderni, hanno investito una cifra considerevole e ora mi ha detto la vicina di casa che il secondo piano è precipitato al primo. Non c’è più nulla. Chissà se resteranno qui o andranno sulla costa. Là il marito ha una sorella con un’attività alberghiera…”.

Le voci si affievoliscono via via e le persone scompaiono dietro una curva. Ci imbattiamo in un gruppo di ciclisti della domenica che, accidenti, sono arrivati in bocca alla nostra comitiva guidata dai vigili del fuoco con il compito tassativo di vietare il passaggio nella zona rossa a chiunque.

“Ci stiamo dirigendo a Caccamo” spiegano al capo dei vigili del fuoco che li ha fermati. Ma lui è inflessibile: risponde che di qui non si può passare e dovranno tornare indietro e percorrere la via più lunga: “Non è sicuro passare nel centro del paese perché il rischio di crolli è sempre in agguato”.

Il centro è off limits per tutti. A malincuore e con lo sguardo un po’ infastidito i ciclisti fanno dietrofront e noi proseguiamo. Se il paese è a pezzi, le località minori rischiano di restare isolate. Infatti la scossa ha prodotto frane sui declivi delle montagne e le persone che risiedono in queste zone, a un tiro di schioppo dal paese, sono costrette a percorrere anche otto chilometri per arrivare al campo dove ci sono gli uffici comunali, la farmacia, il medico… Niente giornali, niente sigarette.

È Caccamo, a circa tre chilometri, l’anello di congiunzione con la vita di tutti i giorni. Le notizie sono un soffio che si coglie mentre si beve una tazzina di caffè al bar. “È vero, ci sono gli smartphone e siamo sempre collegati con il mondo, ma le cose importanti qui sono altre”. Sono le scosse che continuano, ogni sera di regola tre o quattro oscillazioni si sentono. Però la notizia della nomina di Paolo Gentiloni a capo del governo viene notata. E i commenti non si fanno attendere. Se non altro perché il premier (che è anche conte) ha origini a Tolentino. E tra il serio e lo scherzo i commenti si sprecano, vuoi vedere che si ricorda di noi? dicono. Ma si cambia subito argomento. Le cose da fare sono tante e il presidente del consiglio Gentiloni esce subito dai pensieri.

Uno sprazzo di normalità sono le luminarie natalizie nella via principale che conduce al paese. Se da un lato non si è voluto rinunciare a una tradizione, dall’altro quelle luci notturne, che fanno pensare alla gioia e alla festa, stridono un poco con la sensazione di disperato abbandono che si respira.

Prima della barriera che impedisce di entrare nella zona rossa c’è un bar. Uno dei bar aperti insieme alla pasticceria che si trova nella zona industriale a pochi passi dal campo dei volontari. Entrambi hanno resistito, sono strutture basse che non hanno accanto palazzi importanti. Ma alle spalle di quello che si trova a pochi passi dalla zona rossa, là sulla provinciale, c’è una casa dalla pianta quadrata che è completamente fasciata da stanghe di ferro che la sostengono per evitare che crolli sull’unica strada di collegamento rimasta. Anche questo è uno dei temi sul tappeto e non da oggi. Si sente parlare della necessità di una strada alternativa che fino ad ora è rimasta nelle intenzioni sia per ragioni orografiche, il territorio è un susseguirsi di montagne e colline bellissime ma complicate a vivere ogni giorno, sia anche per scarsità di fondi.

Dentro, il paese è un fantasma. Ma qui, ai bordi delle transenne che delimitano la zona rossa, ci si ritrova anche solo per dare un’occhiata da sotto in su alle case sventrate. Case del Quattrocento, alcune di queste abitazioni di famiglia che sono state ristrutturate dai proprietari che si sono spostati a Firenze o Roma o Perugia dove svolgono la loro vita ormai da tanti anni, persone che però qui hanno tenute vive le loro radici. “Chissà se rimetteranno le mani a quel palazzo” dice qualcuno. “La scossa ha fatto un disastro. Si potrà tenere su?”. Domande che riecheggiano e a cui per ora non c’è risposta.

Poco più avanti c’è lo sportello bancario dell’istituto locale. Si trova in un palazzo danneggiato dalla scossa e così come per le abitazioni anche gli uffici sono chiusi e ora l’attività bancaria si svolge sui camper itineranti: un giorno qui uno là per tenere il contatto con i clienti. Fondamentale avere la propria banca a disposizione soprattutto per le imprese che devono continuare a lavorare. Così gli impiegati dell’istituto locale cooperativo si sono fatti nomadi per lavoro e un giorno li puoi trovare a Camerino, l’altro a Pieve Torina con il camper-bank. Lì in viale Umberto I c’è il bancomat che funziona ancora, ma per avvicinarsi occorre avere in testa il casco di protezione per evitare che eventuali calcinacci, risvegliati da una scossa sia pur debole, possano ferire chi sta compiendo le operazioni.

Il timore è che nuove scosse risveglino le crepe a croce, quelle che ormai anche i bambini hanno imparato essere le più rischiose, quelle che d’un tratto possono far implodere e scoppiare anche il muro più solido. È l’immagine di un’esplosione che ti arriva quando si è di fronte ai muri squarciati come fossero stati colpiti da ordigni potentissimi. Per i muri antichissimi o per i muri degli ultimi decenni, la faglia che si muove non ha preferenze: dove s’insinua colpisce e afferma la sua supremazia sulla staticità degli edifici. Il risultato è lo stesso: nessun ordigno è caduto dal cielo o è stato sparato, quell’effetto lo ha prodotto il sussulto della terra e il risultato è esattamente quello dell’esplosione.

Accanto al timore di chi pensa che, dopo tanti terremoti subiti e sentiti, quello del 2016 potrebbe dare il via all’abbandono di questa bellissima terra c’è chi ha fiducia. “Questo paese si risolleverà” dice convinto monsignor Vincenzo. Emigrazione? “Non è terra di forte emigrazione” osserva. “La maggior parte delle persone lavora in zona. Molte famiglie di Caldarola hanno lavoro a Macerata, Tolentino e in paese ci sono aree industriali e artigianali che danno lavoro, come le fonderie che producono la ghisa. La zona artigianale del paese non ha tanto risentito del terremoto e ha continuato a funzionare. Sono convinto: il paese si risolleverà”. Ed è in questa zona il distretto italiano della calzatura in cui rientra il comprensorio di Civitanova Marche e Porto Sant’Elpidio dove è particolarmente diffusa la produzione di scarpe.

Di ricostruzione si discuteva già a dicembre, quando gran parte delle macerie erano ancora per strada e ancora oggi giacciono su quest’area colpita dal sisma; almeno duecentottantamila tonnellate di macerie da rimuovere e le demolizioni vanno a rilento. Si va verso l’anniversario delle scosse e delle devastazioni e il panorama di queste zone è ancora uno skyline di detriti e di residenze provvisorie, molte famiglie sono ancora sulla costa, alcune hanno trovato una sistemazione provvisoria autonomamente e, insieme alla sensazione che la prospettiva di stabilità resta una chimera, cresce il senso di abbandono. Cresce la convinzione di essere stati dimenticati dallo Stato e da chi aveva promesso interventi rapidi. Con questo cresce anche l’interrogativo sul futuro di zone bellissime, ma ancora in bilico. Del resto se le famiglie lasciano le frazioni e i paesi perché, soprattutto per i figli, la vita deve andare avanti, il forte rischio che non facciano più ritorno è presente. Lo si avvertiva già nei primi mesi dopo il terremoto.

In un pomeriggio soleggiato, ma naturalmente corto trattandosi di dicembre, in quella settimana prima di Natale l’argomento ‘ricostruzione e come’ tiene già banco tra gli anziani del paese.

Alle spalle della sede dei vigili urbani, nello spiazzo della zona industriale lontano dalle altezze delle case antiche, è stato ricavato il centro anziani. Anche qui si gioca a carte come in tutti i centri anziani che si rispettino. Entriamo, chiediamo il permesso e la nostra presenza lì per lì viene accolta con diffidenza. Poi basta dire “terremoto” e tutto cambia. D’un tratto si snocciolano i problemi aperti, le conseguenze per i cittadini, i buchi neri sul dopo. Così ogni riserbo cade.

La memoria corre indietro nel tempo, all’altro terremoto: a quello del 1997 che se non fu così disastroso lasciò comunque dietro di sé tanti strascichi polemici di cui ancora c’è memoria. Disquisizioni sulla sicurezza delle abitazioni che sono ‘lamate’ o non sono ‘lamate’ con la scossa (dove lamare sta per crollare).

Quella del 30 agosto? “Cari signori” la loro risposta è molto criptica per la forte caratterizzazione della pronuncia marchigiana stretta, “quella cosa là non la s’augura a nessuno. Questo è certo”.

E poi il tasto più dolente e scottante: la ricostruzione. “Ricostruire tutto com’era?” è la domanda delle domande. “E se sì, come? Con le pietre vecchie sgretolate, ma con i criteri novi?”. Su questo terreno son già bell’e pronti due partiti. “L’Italia, siamo d’accordo, ha una sua storia, ma quella cosa lì non funziona” dicono alcuni.

“Comunque sia, sbagliato o giusto, per il terremoto del 1997 da queste parti non s’è avuta alcuna inchiesta” intervengono altri. “Comunque sia, nei terremoti successivi è andata diversamente. Qualcosa vorrà pur dire. Qui allora si è ricostruito dove era crollato, non da altre parti. Certo che son costi. C’è chi dice che vanno usati i materiali vecchi, ma quanto costa tutto questo lavoro?”.

La critica non si fa attendere: forte la convinzione che quei soldi a quel tempo sono stati spesi male. E ora torna l’interrogativo: ricostruire, e come ricostruire, e quali tempi per ricostruire? Il dibattito è ancora nel pieno. Questo frammento di discussione rubata a un gruppo di anziani è certamente uno dei tanti che ancora sono più che mai sotto i riflettori.

Il regno dei gatti

Il silenzio torna a dominare le stradine medievali, alzi lo sguardo e ogni palazzo presenta uno squarcio del tetto. Gli interni pregevoli spezzati e spesso tagliati in due a mostrare una porzione di divano o un pezzo di letto e perfino una pianta perfettamente in equilibrio nel suo bellissimo contenitore porta-vaso di ceramica, che nei disegni dichiara la sua provenienza umbra, Foligno dista da qui una settantina di chilometri appena.

La cittadina è vuota. Ad abitarla sono rimasti i gatti. Chi era già stato qui prima ci aveva avvisati che tanti animali domestici, gatti soprattutto senza i padroni che avevano lasciato le abitazioni, restavano a miagolare intorno ai portoni e nelle vie di sempre. Effettivamente tantissimi in ogni strada, ad ogni angolo.

A gruppi escono spaventati dal rumore dei nostri passi e dalle voci. Sotto il convento delle suore di clausura se ne sono accasati una decina. Più avanti, in una zona verde senza muri pericolanti attorno, ci sono alcune ciotole improvvisate in piatti di plastica: segno che qualcuno ogni giorno pensa anche a loro. Sono tanti e molti non si spaventano, anzi, si avvicinano alla ricerca di cibo e di carezze.

Uno di questi, Giulio, nel corso della settimana si è autoinvitato alla mensa del campo di protezione civile in cui siamo ospiti. Per lui è stata anche costruita una capanna di fortuna incrociando alcuni legni ricoperti di spesso cellofan. All’interno una coperta fa da cuccia e a lato alcuni piattini con i bocconi del menu della mensa. Il gatto Giulio, puntuale, all’ora di pranzo e di cena lo si vede gironzolare tra le panche. Va’ dove ti porta l’olfatto penserà il felino, e così si avvicina alle gambe per invitare a cedere qualcosa della pietanza. Naturalmente, sebbene amato, ben accetto e divertente, la presenza di Giulio, mascotte a quattro zampe del campo di Caldarola, qualche problema lo potrebbe porre. Il campo è pur sempre un luogo dove si cucina e si mangia e per questo gli animali devono stare fuori. Così il povero Giulio non ha vita facile. Poi, come se avesse imparato, se ne resta ai bordi in attesa di qualche anima buona che pensi anche a lui. Naturalmente c’è. E lui subito pronto a miagolare e a incurvare la schiena intorno alle gambe del benefattore di turno. Anche questo, più che mai elemento di vita quotidiana e domestica, contribuisce ad alleggerire il cuore appesantito dalle macerie.

Ai gatti, tanti, come gli umani scacciati dalle loro calde stanze, non si può non pensare. Così i vigili urbani di Piacenza, il comandante Giuseppe Addabbo e l’agente Umberto Scarpetta, un compito extra se lo sono ritagliati: provvedere ai gatti rimasti soli. Nel baule dell’auto infatti si portano sempre una buona scorta di croccantini. E i felini rimasti a vivere nelle frazioni non smentiscono la loro fama di astuzia: si danno convegno nel punto stabilito con le ciotole improvvisate ogni volta che sentono salire l’auto di Giuseppe e Umberto.

Pieve Torina, Visso, Ussita

Ci incuriosisce vedere altre zone, altre situazioni; così un giorno, mentre Alberto entra nella zona rossa con i carabinieri del nucleo Belle arti, arrivati da Napoli per recuperare quadri e sculture sacre dalla chiesa e dal convento delle suore di clausura dell’ordine delle canonichesse regolari lateranensi, che ritraggono i protagonisti della giornata, con Francesco della Pubblica Piacenza ci addentriamo verso i monti Sibillini.

Amatrice in una situazione normale potrebbe essere raggiungibile, da qui non è lontana, ma le strade sono franate e non ci si può arrivare, ci avvisano, se non per vie tortuose che potrebbero essere impraticabili. Comunque si va verso i Sibillini, ma anche qui le strade di montagna non sono percorribili. Partendo da Caldarola a dicembre 2016, in direzione Norcia, non si può andare oltre Ussita. Nessuna via né verso Norcia né verso Amatrice.

Lungo la strada poco traffico e molte macerie. Case cantoniere sventrate, gruppi di case di cui sono rimasti solo parti della facciata e che hanno perso il corpo restante o, viceversa, hanno perduto del tutto la facciata. La giornata è fredda, le nuvole basse, di tanto in tanto le fende un raggio di sole. La temperatura resta a zero anche se sono le undici del mattino e a tratti scende sotto. Man mano che si va i monti diventano più alti, bellissimi, rocce nude ricoperte di una lieve colorazione verde-muschio. In alto non ci sono boschi dal nostro punto di visuale, ma c’è la neve. Il monte più alto, il Vettore, raggiunge circa i duemilacinquecento metri, non da meno il monte Priore con quasi duemila quattrocento, e quindi a dicembre la neve è di casa da queste parti. Anche troppa, come si vedrà poi con l’inizio del 2017.

La strada si addentra in una gola che a tratti ricorda un’altra valle bellissima, parecchio lontana da qui, la Val di Funes in sud Tirolo; là ci sono le Dolomiti, qui gli Appennini, forme diverse, rocce di altra natura, ma un paesaggio che ti abbraccia nello stesso modo.

Nella parte ancora pianeggiante ci sono pastori con le greggi al pascolo. A uno chiediamo la strada per Visso e Ussita e lui, gentile, ce la indica. Ha uno sguardo benevolo, ci sorride. In tanti sorridono ai volontari, indipendentemente da quello che stai facendo: il fatto di essere lì tra loro li rassicura e credo che così si sentano meno soli. Diverse persone incontrate ci manifestano la loro preoccupazione per il dopo: “Quando voi volontari non ci sarete più, a noi resteranno solo macerie e niente calore umano”. Raccolte le indicazioni proseguiamo il percorso. La strada non è breve e quindi c’è tempo per chiacchierare e riflettere sul nostro essere lì a una settimana da Natale.

“Noi siamo qui” mi dice Francesco. “Per una settimana condividiamo la loro situazione, ma poi torniamo a casa, nelle nostre case calde. Ci aspettano i riti delle feste, i regali, gli incontri con i parenti. Pensa a loro che dalla loro casa sono scappati, non hanno più niente. Hanno messo le luminarie in paese, specialmente per i ragazzi; forse loro nutrono aspettative… penso a queste cose”.

A un signore chiedo che cosa pensa del suo futuro. La sua casa non è più agibile e quindi gli suggerisco: invece di ricostruire quella danneggiata, non pensa a una casa di legno? E per convincerlo aggiungo: ci sono super abitazioni, con tutti i comfort e di ogni dimensione. Così non avrebbe più l’incubo della terra che trema e del tetto che può cadere e distruggere il lavoro di una vita, se non la vita stessa. Sarebbe una soluzione che lo renderebbe più sicuro per il futuro… Bene, volete sapere che cosa ha risposto quell’uomo? “Con quali soldi? Non ne abbiamo più. A scherzare, a ridere e a divertirsi anche con giochi improvvisati sono i bambini che forse non si rendono conto, ma i loro genitori, accidenti, li vedo con lo sguardo vuoto, attonito”.

“Perché, Francesco, hai deciso di fare il volontario?” chiedo al mio compagno di viaggio.

“Per un motivo semplice semplice” mi risponde. “Quando ho smesso di lavorare e sono andato in pensione (avevo un negozio di articoli sportivi), ho sentito il bisogno di dare agli altri il valore del mio tempo. Ora che non lavoro di tempo ne ho tanto e a qualcosa deve servire”.

Mi fa riflettere molto quello che mi ha detto Francesco. La moneta preziosa del tempo. Il tempo è una ricchezza preziosa e metterlo a disposizione delle persone che non hanno più niente significa portarlo a buon fine.

Torniamo al viaggio. Incontriamo paesi a pezzi come Visso. Era qui la sede del parco dei monti Sibillini. Nel paese, a poca distanza da Ussita, non è restata in piedi alcuna abitazione. Nel sito del parco compare ancora un avviso importante che così recita: “Il forte sisma che ha colpito il comune di Visso ha reso inagibile la sede istituzionale del parco. Gli uffici amministrativi sono al momento ospitati presso altre strutture: Visso container zona piscina comunale; Foligno presso la protezione civile della regione Umbria; Tolentino presso istituto zoo profilattico di Marche e Umbria”.

Il parco qui fa parte integrante dell’economia turistica che, se guarda principalmente al mare, non trascura la ricchezza e la bellezza che arriva dalle montagne. E è per questa ragione che immediatamente, durante queste settimane di dicembre, l’attenzione dei tecnici si sposta anche sui monti per una ricognizione della loro accessibilità. In questo momento si parla di situazione molto complessa per la quale servirà tempo per verificare sul campo lo stato di ogni sentiero: così informano i tecnici che hanno effettuato un sopralluogo aereo della zona verso la fine di novembre.

“Alcune aree non sono raggiungibili a causa della chiusura di strade fortemente danneggiate o che attraversano zone rosse. In particolare, tutte le strade che raggiungono Castelluccio (da Norcia, Castelsantangelo sul Nera e Arquata del Tronto) sono ancora chiuse. Visso è raggiungibile solo da Maddalena di Muccia per Pieve Torina; l’attraversamento di Visso è consentito solo previa autorizzazione del comune. Non è comunque consentito andare oltre Ussita e Castelsantangelo sul Nera, se non per motivi di necessità, tramite pass rilasciato dai vigili del fuoco. Chiuse anche le strade per Foce di Montemonaco, per Forca Canapine (da Norcia e da Arquata del Tronto) e la galleria di San Pellegrino (da Norcia ad Arquata del Tronto). Molte aree, soprattutto nei settori più impervi, sono interessate da diffuse frane e distacchi di massi da pareti rocciose, anche di notevoli dimensioni. Oltre ai massi già caduti, che in molti casi hanno chiuso o danneggiato sentieri, va richiamata l’attenzione anche sulla forte instabilità dei  versanti indotta dal sisma, soprattutto in considerazione che la sequenza sismica è ancora in corso. Le precipitazioni piovose e nevose del periodo invernale e primaverile potranno inoltre accentuare tale rischio”.

Siamo circondati da un bellissimo sfondo di montagne. Pendii che però nel profondo celano quelle stesse lacerazioni che nel tessuto urbano sono visibili e feriscono il cuore, ma anche qui le stesse ferite, seppure nascoste dalle rocce, rendono impossibile l’accesso. Allo stesso modo anche queste ferite sono da censire, ripristinare e valutare.

Lungo la strada ancora macerie.

In un piccolo gruppo di case prospiciente la strada incontriamo la distruzione, non più un muro in piedi, sulle macerie giocattoli semidistrutti, un termosifone rimasto attaccato a uno spezzone di parete, un water capovolto sopra un cumulo di mattoni, una coperta azzurra.

In quella casa fino al giorno prima della scossa ha abitato una famiglia. Ora o è sfollata oppure è alloggiata nei villaggi di roulotte che si trovano lungo il percorso, negli slarghi che la valle stretta consente. Incontriamo anche alcuni tir con un carico di casette prefabbricate. Il conducente sceso dalla motrice parla con un signore che indica la strada. Nelle campagne tante sono le immagini così.

“Ci si arrangia come si può e come i mezzi finanziari consentono. Non dormiamo tranquilli in casa” dicono tutti a una stessa voce. Anche se la loro casa non ha avuto danni, il timore di risentire quell’urlo, quel boato sottile che penetra nella testa e non la lascia più è terribile. Meglio avere sopra la testa qualcosa che non crolla. “Speriamo in un inverno clemente” ci dice una signora che lungo la strada torna alla roulotte con la spesa. “Domani vengono i verificatori per dare un’occhiata alla casa. Anche se non trovano nulla non so se tornerò lì. Adesso, subito, certo no”.

Poi, invece, l’inverno non sarà clemente.

Qui il freddo di solito picchia e anche forte, la neve scende copiosa, ma quest’anno sulle macerie del terremoto anche il meteo ha deciso di infierire causando tanti problemi agli animali.

Sono zone di allevamento e nell’inverno appena passato per alcune è stata decretata la fine. E i veterinari hanno avuto il loro daffare nel corso dei mesi invernali per aiutare gli allevatori alle prese con lo ‘sciopero del latte’ perché gli animali, con il troppo freddo e all’addiaccio, non ne producevano più. E qui latte, formaggi sono tra i prodotti di pregio. Soprattutto quelli che arrivano dalle zone del parco dei Sibillini. Diverse le iniziative nei mesi scorsi per sostenere l’economia di questa zona, tra cui alcuni mercatini del biologico organizzati in diverse parti d’Italia e anche in Emilia Romagna, con lo scopo di dare fiato ai produttori usciti in ginocchio dal terremoto e da un inverno pesantissimo.

E se l’agricoltura, composta di tante piccole e piccolissime imprese che producono qualità e tipicità note in tutta Italia, ha certamente contribuito a mantenere vivo e abitato questo territorio, oggi con il colpo del terremoto e poi delle nevicate dell’inverno i problemi si sono infittiti e le richieste di aiuto non si sono fermate, soprattutto per ricostruire le stalle quasi tutte distrutte. Anche questo è uno dei tanti ostacoli da superare per non disperdere questa ricchezza parte del paesaggio e della storia.

A poca distanza da Caldarola c’è Camerino. Diciotto chilometri di colline bellissime coronano la provinciale che si snoda tra sali e scendi. Caldarola con la scossa del 30 ottobre è stata colpita nella sua bellezza pluricentenaria, la Camerino universitaria conosciuta anche fuori dai nostri confini è un dramma senza fine.

È il 14 dicembre, un mercoledì nel primo pomeriggio, quando con Daniele Zavalloni si parte per un sopralluogo a Camerino. Anche qui burocrazia. Ma capiremo poi che, viste le condizioni della città, la lentezza nel via libera alla visita del centro storico è necessaria anche per garantire la nostra tutela. Siamo ancora in pieno sciame sismico e le scosse si fanno sentire quotidianamente. In linea di principio non è possibile mettere a rischio la vita delle persone, considerato che si entra in un centro antico colpito nella sua interezza. Infatti per accedere alla città, tutta zona rossa, occorre il via libera dei vigili del fuoco di Macerata. La domanda via mail viene avanzata il giorno prima e l’ok arriva soltanto una mezz’ora prima dell’orario stabilito. I vigili del fuoco di turno sono quelli di Pesaro-Urbino e hanno un’agenda fitta di impegni. Sono loro che devono affiancare i residenti che chiedono di accedere alla propria abitazione per prendere effetti personali. E Camerino nel suo centro storico è molto popolata. Settemilacinquecento studenti e settemila abitanti che vivono gomito a gomito nelle stesse stradine medievali, vicini di casa negli stessi palazzi monumentali e accanto all’antica università. Ancora a marzo la città è chiusa nel silenzio dall’abbandono e molti si chiedono come potrà risorgere dopo questo colpo al cuore.

La città è grande e i vigili del fuoco hanno un gran daffare in questo giorno. Al centro di raccolta che si trova nella parte bassa della città, ai piedi della collina sulla cui sommità sorge la città, c’è la tenda dove ci si deve registrare per qualsiasi cosa si debba fare nella zona rossa.

Tante le persone in fila che attendono. C’è un andirivieni continuo, ma la squadra che è partita una mezz’oretta prima per accompagnare una famiglia a casa non è ancora tornata. Non c’è fretta. Le esigenze delle persone hanno la precedenza. Un signore distinto passeggia davanti a noi, ha l’aria smarrita e canticchia dal Nabucco “O mia patria, sì bella e perduta”. Ci vede in attesa e si sofferma per scambiare due parole dopo aver notato che lo stavo osservando: “Qui viene lunga. I vigili del fuoco sono impegnati… mah… aspettiamo” ha detto e se n’è andato continuando la sua personale interpretazione dell’aria verdiana.

Intanto si avvicina un volto noto. È Roberta Rovelli, consigliere comunale di Caldarola, e si trova a Camerino perché è qui il suo lavoro per questo giorno, nel camper-banca, lo sportello itinerante che si sposta nella zona poiché le sedi dell’istituto sono state danneggiate dalle scosse. Roberta lavora alla banca dei Sibillini, ma lo sportello non c’è più. Lei sta sul camper ‘banca-bus’ per accogliere i clienti dell’istituto che chiedono informazioni. “Il camper è itinerante” spiega. “Si ferma due giorni in ognuna delle località”.

Co i bancomat come fate?

“Quelli funzionano, sono stati messi in sicurezza, ma le tre sedi della zona sono ko”.

Un camper-banca si trova anche a Caldarola all’ingresso principale del campo su cui campeggia una grande stella cometa di compensato. Un segno di Natale. A Camerino i segni dell’imminente Natale si vedono nel villaggetto di casette di legno che si trovano nella zona pianeggiante, sotto la collina su cui sorge l’antica città. Roberta, prima di accomiatarsi, consegna a Daniele due voluminose scatole contenenti panettoni, uno dei tanti doni arrivati e destinati alla mensa del campo di Caldarola: serviranno per il pranzo di Natale e per quello di Capodanno.

Ancora un po’ di attesa poi si parte per raggiungere il centro di Camerino. Abbiamo solo un’ora perché ci sono tante altre persone che devono entrare… Dopo un breve percorso sul fuoristrada della protezione civile, si scende e si sale a piedi, il vigile del fuoco avanti e noi dietro. Nel silenzio irreale che non appartiene a un centro urbano quando è animato e abitato, i nostri passi rimbombano. Mentre avanziamo ci arriva l’eco di attrezzi al lavoro. Sotto il pendio, sporgendoci dalla balaustra che sostiene la strada, vediamo operai al lavoro per abbattere un edificio pericolante. Ha una parte crollata completamente e si intravede all’interno una parete rosa con un poster che ritrae un divo del rock, un letto sottostante e un  pezzo di libreria. Si scorge tra i rami degli alberi spogli. Un colpo e le pareti cadono. Si fa spazio per ricostruire. Chissà quando…

Spettrale, tra i grandi palazzi storici, quello ducale che ospitava l’università; tutti sono pesantemente colpiti. Grandi crepe, cornicioni staccati e frantumati a terra. Palazzi alti, vie strette. Il pericolo più grosso sta lì: alla sommità dei tetti ci sono i coppi che fuoriescono di un buon dieci centimetri  lungo tutto il perimetro dei palazzi e incombono quindi su chi passa sotto. Una scossa sia pur lieve li potrebbe far precipitare al suolo con il rischio di finire in testa a chi passa in quel momento.

Durante la visita a Camerino un’altra scossa. Noi siamo in piedi, camminiamo e non ce ne accorgiamo, ma a Caldarola l’hanno avvertita e distintamente. Il telefono di Daniele squilla: qui a Caldarola, lo avvisano, hanno sentito un 3.5. “Non c’è tregua, anche l’altro ieri un’altra scossa di quell’intensità” dice il vigile del fuoco che ci accompagna e segue passo passo i nostri movimenti, attento che non ci si avvicini troppo al perimetro delle case per il rischio che dai tetti possano piovere rovine: il suo compito è evitare che finiamo in pericolo.

Arriviamo a una delle tante piazzette di cui è composto il tessuto urbano di Camerino. Lì c’è il palazzo dell’ordine dei geometri. Paradosso dei paradossi: è quasi sventrata la casa dei progettisti. È moderno, architettonicamente un pugno in un occhio rispetto al contesto in cui si trova. Costruito con lo scheletro di cemento armato, i timpani che costituivano le pareti che in quel momento non ci sono più. Si sono frantumati a terra e hanno formato cumuli di detriti. Un’auto che si trovava parcheggiata lì sotto è irreparabilmente stritolata, sembra passata attraverso uno schiaccianoci. Le pareti si sono aperte come fossero una tenda di velo e si vede l’interno: ci sono computer, scrivanie rimaste come sono state lasciate quando scorreva la normale vita quotidiana, un pupazzo sull’asta di una lunga matita, un gadget, un ricordo di viaggio oppure un tocco di colore per ravvivare il grigio dell’ufficio e sulla scrivania a fianco una piantina, forse dono per il compleanno di qualche impiegata. Uffici a volte troppo impersonali ravvivati dal tocco individuale…

Tutto questo è immobile, silenzioso e contribuisce a mettere ancora più allo scoperto la ferita che la terra ha inferto. Poco oltre la scena si ripete. C’è la chiesa di San Filippo circondata dalle sue stesse macerie ‘vomitate’ dai muri portanti che sono stati danneggiati. Anche gli alberi che contornano la piazzetta sembrano aver ricevuto la visita di una forza indemoniata: un paio hanno il tronco tranciato a metà come se un provetto boscaiolo avesse fatto cadere dall’alto un’enorme scure, invece è precipitato sul tronco un transetto della chiesa che ha prodotto un taglio netto all’albero.

Anche qui, come già a Caldarola, gli unici segni di vita rimasti sono alcuni gatti che s’aggirano nei vicoletti e stazionano sui cumuli di mattoni crollati.

Ma ci sono anche gli studenti che si danno da fare. Sono a bordo di una jeep e il loro segno distintivo è uno striscione che avvolge il cofano dove sta scritto “Io non crollo”. Sono lì per aiutare i cittadini che hanno bisogno di entrare nelle loro vie, di riprendersi effetti personali dalle abitazioni abbandonate e inanimate.

Si prosegue il giro e incontriamo una famiglia con il pick up. Nel cassone sono ammonticchiate bacinelle di plastica utilizzate come contenitori di suppellettili, oggetti da cucina, strumenti di lavoro come computer, piumini, trapunte, giocattoli, detersivi, poi indumenti e scarpe per cambiarsi e coprirsi visto che il freddo si fa sentire. Masserizie indispensabili e che contribuiranno a ricostruire una parvenza di casa.

È ora di scendere: i vigili del fuoco sono attesi per altri interventi dai residenti. Ci riavviamo verso Caldarola. Lungo la strada il campanile decapitato di una chiesa e nei cortili tante roulotte di salvataggio e casette come quelle già viste in altri paesi. Ovunque una rassegna ininterrotta di edifici storici e civili distrutti. Insieme alle costruzioni da ricostruire ci sono anche le vite distrutte di tante persone pure da ricostruire.

PARTE QUARTA

10-17 dicembre 2016

Il lavoro al campo

Dopo la scossa un vero miracolo,

in poche ore i volontari iniziarono

a cucinare e tutti riuscirono

ad avere una piatto di minestra.

Ai piedi del paese sono stati creati gli spiazzi per far posto ai container dove sono ospitati i volontari in servizio. Undici box ciascuno con otto letti a castello in uno spazio di circa dieci metri quadrati. Lì passiamo otto notti, Alberto e io insieme ad Armando, Giusy e Emilio-Maurizio. Con loro, durante questa settimana di dicembre, ci si vede poco perché già alle sei del mattino, a dicembre è ancora buio pesto, inizia la loro corvée in cucina; per noi il lavoro parte alle otto dopo colazione e alzabandiera. Da quel momento full immersion fino a sera e, dopo poche chiacchiere in mensa, di corsa a letto in attesa di ricominciare una nuova giornata.

Il terremoto, seppure lievemente e non con grandi scosse, ci fa sentire la sua presenza. Capita in diverse notti che la branda si muova, oscillando da destra a sinistra senza grandi colpi. Soprattutto chi si trova nella brandina a terra il movimento lo avverte chiaro e netto. Piccoli ondeggiamenti, un lieve tremore che avverti da sveglio. Si fa sentire ma mai tanto da suggestionare, almeno per noi volontari che non abbiamo vissuto lo spavento e lo choc della grande scossa del 30 ottobre. Per gli abitanti di questi paesi è ben diverso.

Una strada divide la zona dei container dal campo di protezione civile della regione Marche dove si trova la colonna mobile dell’Emilia Romagna. Nel campo hanno trovato spazio anche gli uffici comunali anagrafe, economato ragioneria, ufficio tecnico. C’è anche la farmacia; il farmacista del paese è il sindaco e aveva casa e negozio nella piazza principale, di fronte al municipio, e qui tutto è pesantemente danneggiato.

Nell’area uffici uno dei moduli è riservato all’ambulatorio del medico di base. Uno spazio ridottissimo che non ha previsto la sala d’attesa, così i pazienti che aspettano di essere visitati, e magari hanno l’influenza, sono costretti a sostare per diverso tempo sotto la tettoia prima di entrare. Una situazione di emergenza che anche lo stesso medico non manca di rilevare con una punta di critica nei confronti dell’organizzazione del campo. Nella parte degli uffici amministrativi un viavai di impiegati. Tanti i cittadini alle prese con la burocrazia che impone, per ogni richiesta da parte di chi ha avuto la casa lesionata o ha dovuto comunque lasciarla perché minacciata da quelle lesionate dei vicini, un lungo iter.

L’ingresso nel campo dove abiteremo per una settimana insieme agli altri volontari è il primo impatto con l’emergenza.

È qui che stiamo a tu per tu con i cittadini posti di fronte a una prova enorme: resistere, resistere e farcela avendo perso tutto. Il campo rappresenta, dal momento delle scosse più forti, l’unico nucleo civico rimasto a Caldarola. Da quel momento tutto passa da lì. I dipendenti comunali, anche quelli impegnati nei lavori esterni e non occupati in ufficio, per quattro volte al giorno devono passare da quella sbarra che delimita il campo dall’esterno per timbrare il cartellino. Poi fuori al lavoro. Un lavoro che ha certamente perduto i contorni della routine perché in quel caos nulla si può più svolgere come prima.

La vita, dalla collinetta su cui dimora la gran parte dei cittadini di Caldarola, ha traslocato nella piana sotto, nella zona industriale del paese dove hanno trovato posto la chiesa, il centro anziani, la sede della polizia municipale, la scuola elementare e quella d’infanzia. Scuola elementare che, proprio il giorno prima del nostro arrivo, è stata sistemata in una vecchia fabbrica di colori; accanto anche la materna che è stata consegnata dal comune di Cento in provincia di Ferrara. Una scuola utilizzata dai bambini del Ferrarese, quando la loro è stata distrutta dal sisma del 2012.

Al nostro arrivo al campo ci accoglie Marco Bacchini, funzionario regionale e capo-campo per la settimana, insieme a Daniele Zavelloni suo vice.

Mirco Zucchini, giovane alpino di Casalecchio di Reno aderente all’Ana Bologna Romagna, è il capo dei volontari di questa settimana. Una veloce stretta di mano di presentazione e poi s’inizia. Ci attende il passaggio di consegne. I volontari del coordinamento di Rimini passano il testimone della mensa alla nostra squadra Ana. Qui inizia l’avventura.

Il lavoro ci aspetta. Quale sarà il nostro? Si parte con la distribuzione dei compiti che avviene con un briefing improvvisato nella sala-mensa. A semicerchio ci sediamo sulle panche per ascoltare Mirco. Ci sono alcuni che hanno già il lavoro assegnato e si tratta di piacentini e modenesi che sono partiti con la missione della cucina, poi ci sono alcuni che sono assegnati al lavoro della logistica, anche per competenza professionale nella vita civile, e ci sono altri, tra cui noi, che di competenze specifiche non ne hanno e che si adatteranno a fare quel che serve.

L’incontro avviene accanto a uno dei tavoli della mensa su cui campeggia un albero di Natale costruito con pezzi di legno chiaro, disposti a piramide fino a culminare in una stella cometa. Un albero di Natale, un vero abete, si trova anche all’ingresso del campo. È illuminato. Le luci le hanno portate alcuni volontari lombardi di Lumezzane. “Che Natale sarebbe senza un albero illuminato?” si sono detti, e quindi ecco qui: in una giornata ‘toccata e fuga’, hanno consegnato le luci e se ne sono andati senza neppure restare a mensa. Anche questo un gesto solidale utile a rincuorare. In questo freddo dicembre di tante solitudini sicuramente quelle lucine danno calore.

È davanti a quell’albero illuminato che ogni mattina si tiene l’alzabandiera con tanto di inno nazionale. Quando di turno ci sono gli alpini, spiegano i responsabili del campo, il rito è di rigore.

Tra una settimana è Natale, ma qui il sole splendente non fa pensare al pieno dell’inverno che si avverte soltanto la notte, quando la temperatura scende appena sotto lo zero e allora il sacco a pelo è provvidenziale.

Vivere nella stessa condizione in cui vivono le persone colpite dal terremoto apre la mente di fronte alla propria vita e a quella degli altri. La vicinanza e la presenza di calore umano diventa un sostegno irrinunciabile, dà valore e forza al senso dell’essere umano. Lo capisci dagli sguardi che raccogli dalle persone che incontri e con cui scambi poche fugaci parole. Molte di loro non hanno molta voglia di parlare, di raccontare, ma il dramma te lo trasmettono con gli occhi e a quel punto ogni parola è superflua.

Ma basta divagare: quale sarà dunque l’aiuto che potremo dare noi, senza una specifica qualificazione? L’interrogativo è presto sciolto: “Te la senti di dare una mano in segreteria?” mi chiede Mirco.

“Ok, pensavo a un lavoro più pratico, ma va bene”.

“E chi vuole occuparsi della pulizia dei servizi igienici e delle docce?”.

“Per noi va bene” dicono quasi all’unisono Alberto, Giorgio e Tiziana.

Ora il quadro è completo. Il grosso del gruppo è in cucina sia tra i fornelli sia per distribuire il cibo. La distinzione è indispensabile perché chiunque abbia contatto con il cibo e con la somministrazione deve avere le carte in regola e deve avere la certificazione che lo autorizza; per questo deve sostenere il corso di formazione (trenta ore per avere la certificazione alimentare Hccp) e quindi anche il resto della squadra ora ha un lavoro. I sette giorni hanno inizio. Occorre mettere le gambe in spalla. Se al pranzo hanno pensato i riminesi, per la cena tocca agli emiliani, insomma al nostro gruppo.

I bagagli, pochi e leggeri con una sola cosa preziosa, il sacco a pelo, sono stati depositati nel container. Nel box che ci è stato assegnato siamo in cinque: Giusy, Armando, Emilio-Maurizio, gli alpini impegnati in cucina, Alberto ed io, i generici quattro piacentini e un modenese. Nel container i letti a castello sono quattro per otto posti. Lo spazio è ridottissimo, circa sei per due. Per otto notti questo sarà l’ambiente per il riposo. Dalle sette alle dieci in piedi ogni giorno e così via.

Ci vuole un po’ di tempo per orientarsi nelle cose da fare e soprattutto capire come funziona la vita in un campo di emergenza, dove si concentrano tutte le attività che solitamente in uno spazio urbano integro si distribuiscono su una superficie molto più ampia. Qui tutto è emergenza, anche la vita che si svolge al campo. Qualunque cosa si faccia si vive gomito a gomito.

Nella macchina burocratica

Della complessità necessaria per mettere in moto la macchina dei soccorsi, e soprattutto per tenere traccia di ogni passaggio, mi rendo conto in breve tempo perché il lavoro che mi è stato affidato per la settimana a Caldarola è quello dell’aiuto segreteria: il punto cruciale da cui si tiene sotto controllo la situazione del campo. Inoltre le richieste per qualsiasi acquisto passano da qui. Non solo: la segreteria è il punto strategico nel quale si tiene sotto osservazione e si ha il quadro complessivo delle persone che si muovono sul campo.

Si deve conoscere e registrare i volontari che arrivano. Si deve sapere quanti sono quelli che se ne vanno in giornata, da che ente provengono, per quale mansione sono presenti, se fruiranno dei pasti delle colazioni e se hanno bisogno di un posto letto.

Conoscere quanti pasti sono necessari e quante sistemazioni notturne occorrono è fondamentale perché giornalmente si devono preparare i cibi e quindi fare gli acquisti alimentari e, per la sistemazione notturna, occorre individuare i posti liberi nei container e fornire l’occorrente per il letto, ma anche ‘armonizzare’ gli ospiti tra loro per quanto possibile. Il dato delle colazioni, dei pranzi e delle cene è da seguire con molta attenzione perché in questo modo si tiene sotto controllo, sul totale dei pasti forniti, quanti residenti hanno ancora la necessità di avere il servizio. Prima dei pasti si svolge anche un mini controllo sulle persone che chiedono di accedere alla mensa perché, ora che l’emergenza si va alleggerendo, chi ha trovato una sistemazione abitativa automaticamente esce dal supporto.

Si sviluppa in questo modo un’osservazione costante per capire quando è il momento di sospendere l’attività. Più il numero dei residenti che necessitano di sostegno si va riducendo, più vicina è la sospensione dell’aiuto portato dalla colonna mobile dell’Emilia Romagna. L’obiettivo del campo è quello di sfamare la popolazione senza casa, ma nel momento in cui il numero dei residenti che hanno questa necessità diventa pari o inferiore a quello dei volontari che vi lavorano, viene meno la necessità di mandare avanti il progetto.

In questa settimana prenatalizia il numero delle persone del paese rimaste a fruire della mensa si è sensibilmente ridotto (meno di un centinaio, variabile di giorno in giorno) per il fatto che nel corso delle settimane precedenti molti sono stati trasferiti negli alberghi della costa e alcuni hanno avuto sostegno da familiari residenti nella zona, ma soltanto un paio di settimane prima le persone che arrivavano al campo per avere tre pasti caldi al giorno erano almeno trecento e immediatamente dopo le scosse molte di più.

Nella settimana pre-natalizia si è verso la conclusione dell’esperienza di sostegno messa in atto dalla regione Emilia Romagna per le zone marchigiane già a partire da agosto.

Il primo momento degli aiuti a Montegallo si è appena concluso o è in via di alleggerimento quando, con la scossa terribile del 30 ottobre, la macchina si è di nuovo rimessa in movimento perché quel ramo del sisma ha colpito altri paesi, tra cui appunto Caldarola. Anzi, la colonna mobile prima della scossa del 26 era già ripartita per Rimini. Pochi giorni dopo è diventata di nuovo operativa, ma stavolta a Caldarola.

Imparo con l’aiuto di Elena

La mattinata passa tra un’incombenza e l’altra. Per me, generica di segreteria, alle prese con la macchina burocratica rigida e codificata è arabo puro.

Ma dopo due giorni di applicazione excell, bolle, protocolli che deve siglare Angelo Seri del Coc, tutto sembra aver ingranato, grazie anche all’aiuto di Marco e Daniele, i funzionari della regione. Da ‘generica’ affianco Elena Castiello in segreteria. Lei è esperta e fa parte del coordinamento di Rimini gruppo Valconca; non sono nuovi per lei né le persone né i meccanismi della protezione civile. Non ci si conosceva, ma bastano poche ore o anche meno per trovarci subito sulla stessa lunghezza d’onda, lei pensa una cosa e io nel mentre la dico, e viceversa.

Cerchiamo di eseguire il nostro compito senza fare pasticci perché in remoto c’è il controllo della regione che l’indomani ci farà le pulci sul lavoro inviato. Il ‘grande fratello di Bologna’, si scherza tra noi, sorveglia che gli ingranaggi della macchina funzionino senza intoppi. Con apprensione infatti ogni mattina si osserva il telefono di servizio in attesa di una telefonata-shampoo per qualcosa di sbagliato nei rapporti inviati. Se i numeri non tornano tra le persone presenti, i pasti consumati, i letti assegnati, le coperte consegnate… si deve rifare, punto e a capo. I numeri sono numeri e i conti, le presenze devono tornare, non c’è scampo.

Al nostro arrivo abbiamo trovato il vademecum del come fare perché, se è vero che il primo discrimine per la scelta di un volontario a svolgere una funzione è la sua competenza, possono capitare anche gli imprevisti. Può succedere che, per mancanza di disponibilità, soprattutto in questo periodo a ridosso di Natale, i volontari attivati non abbiano conoscenze specifiche per la segreteria, quindi lasciare a disposizione una griglia scritta su come fare è fondamentale. Il caso si presenta con me che di segreteria non ho mai avuto alcuna esperienza. Proprio nessuna.

Tra le azioni fondamentali su cui non si deve mai ‘scivolare’ c’è la registrazione quotidiana dei volontari nuovi. Un compito della segreteria, ma anche un onere per il volontario che, come mette piede nel campo, ha il compito di presentarsi in segreteria per farsi registrare. Solo così ‘esiste’ e solo così, quindi, può mangiare a colazione pranzo e cena e dormire se si ferma per ventiquattro ore o più. Controlli su controlli, nomi, telefoni, codici fiscali da riportare su tabelle fittissime. Nomi che poi si devono registrare all’arrivo con il check in e alla partenza con il check out nel registro elettronico regionale dei volontari di protezione civile (Starp). Tutto deve combaciare se no sono guai. Metti che un volontario risulti ancora presente, ma non lo sia realmente e incappi in un incidente; che cosa può succedere dal punto di vista assicurativo?

A metà settimana, al campo, c’è il passaggio di consegne. Verso la fine della settimana arriva il cambio dei responsabili: tornano a Bologna Marco Bacchini e Daniele Zavalloni, che ci hanno assistito nei momenti di crisi burocratica degli inizi, e arrivano Antonio Pesaresi e Marco Torsani che resteranno fino al 23 dicembre.

In segreteria tutto procede, il lavoro è ormai rodato e sappiamo destreggiarci con la burocrazia. Almeno quanto basta. Si è dovuto rifornire di gasolio i serbatoi del campo per poter avere l’energia. Normale amministrazione in un campo d’emergenza. Di tanto in tanto arrivano nuovi funzionari della regione per informarsi sull’andamento del campo, ma la loro è una visita fugace: ripartono la sera stessa.

Momenti tranquilli si alternano a momenti di frenesia. Tra l’uno e l’altro c’è lo spazio per raccontare qualcosa della vita di ciascuna. Elena, napoletana di origine, ma in Romagna da quando era bambina dopo altre tappe in Liguria per il lavoro paterno, ha alle spalle una lunga esperienza come crocerossina e poi nella protezione civile nella sua Valconca. Tanti frammenti di ricordi. Come quando nevicò così tanto a Cesena che nella struttura per anziani di cui era responsabile (episodio che ha visto la partecipazione anche dei volontari piacentini che la racconteranno in queste pagine) scattò l’emergenza e arrivarono dal Trentino per liberare i tetti da una massa di neve mai vista prima: si temeva che potessero non reggere e si decise di far intervenire esperti di alta quota. Durante quelle operazioni gli anziani furono sfollati.

Elena per me è importante perché se mi avessero catapultato in quel container ufficio senza di lei che conosce molto delle procedure, anche se con enorme modestia ripeteva di non sapere, mi avrebbero certamente cacciata a calci.

Sopporta ogni volta che le dico: “Elena, oggi vado con i volontari piacentini della pubblica nel giro degli anziani”, oppure “Mi assento per fare un salto all’oratorio”, e ancora: “Andiamo con i carabinieri del nucleo artistico che recuperano quadri e oggetti dal convento di clausura”. Insomma è un andirivieni continuo e al mio ritorno certe volte mi racconta quello che è successo in mia assenza, ma soprattutto chiede che cosa ho visto, com’è la situazione.

Lei è a Caldarola con il suo compagno Claudio, marchigiano di Recanati. La loro presenza qui, da quando è stato messo in funzione il campo, è frequente. E così racconta di quella domenica, della scossa terribile vissuta quasi in diretta, la scossa forte, quella che ha messo in ginocchio tutta questa fascia di territorio che si estende dal litorale ai Sibillini.

“Avevamo programmato di venire a trovare i nostri amici di Rimini che erano partiti in quella settimana” racconta. “Siamo arrivati qui la domenica mattina e abbiamo trovato metà del paese per strada. Il sindaco girava con l’auto comunale e con l’altoparlante annunciava che tutto il paese era zona rossa e che nessuno sarebbe potuto tornare nelle abitazioni. ‘Sono il sindaco’ ripeteva, ‘non ci sono morti, la zona interna è stata chiusa’. La frase veniva ripetuta all’infinito e da quel momento non c’è più stato niente in questo paese”.

Una situazione irreale, persone anziane in vestaglia che vagavano, gli amministratori sconcertati e preoccupati che nessuno si mettesse in situazione di pericolo, gli SOS da lanciare… “Insomma, un vero day after” ricorda ancora Elena. “E poi si poneva un’urgenza da risolvere: spostare la mensa immediatamente. Si trovava alle spalle di un gruppo di abitazioni alcune delle quali molto colpite dalla scossa di quel mattino, quindi non si trovava più in posizione di sicurezza: è questa la prima regola per attivare un campo di protezione civile. Una lotta contro il tempo perché si trattava di predisporre le pietanze per dare da mangiare a tantissime persone, non so neppure dire quante fossero, ma di fatto un intero paese, tolti coloro che potevano essere aiutati da parenti in altri paese. Beh, fu un vero miracolo, in poche ore la mensa fu trasferita, si iniziò a cucinare e le persone riuscirono tutte ad avere una piatto di minestra. Anche noi, che eravamo venuti per dare un saluto agli amici volontari di turno nella settimana, ci mettemmo al lavoro. Serviva il lavoro di tutti”.

È da quel momento che in questo campo ruotano volontari di settimana in settimana; alcuni sono tornati anche più volte, come ad esempio Vincenzo, un volontario della croce rossa della provincia di Reggio Emilia che è rimasto ininterrottamente per quindici giorni e che ha lasciato i suoi terreni e gli asini che alleva per stare a Caldarola a dare il suo contributo. Anche tanti altri, lavoratori, artigiani, hanno fatto questa scelta. Tra loro anche Mirco: “Sono un artigiano” dice, “ma non inseguo i soldi e sono tornato ancora”.

Già in settimana si parla dell’imminente chiusura del campo di Caldarola e del ritorno a casa della colonna mobile della regione Emilia Romagna. Così è di lì a qualche settimana. Attorno a febbraio l’unità mobile della regione lascia Caldarola e la mensa è spostata nella zona delle scuole per dare la possibilità ai ragazzi di riavere il tempo pieno che da mesi non hanno più.

L’esperienza dunque si chiude, non prima però della festa di Natale e di Capodanno, ospitata sotto il tendone della mensa e che riunisce gran parte degli abitanti del paese che non sono stati sfollati tra Grottammare, Martin Sicuro e Alba Adriatica. Le pagine face book di alcuni abitanti di Caldarola e anche della stessa proloco raccontano quei momenti insieme. Momenti di grande valore per una comunità così colpita.

Amministratori,

corsa contro il tempo e la burocrazia

Il quadro che segue si riferisce ai problemi sul tavolo dell’amministrazione comunale nella settimana dal 10 al 17 dicembre 2016, quindi le problematiche di cui si parla nel frattempo potrebbero essere avviate a soluzione o ridimensionate.

Gli amministratori, presenti a ogni ora del giorno e della sera al campo di protezione civile rincorrono problemi e soluzioni spesso difficili da trovare. Il terremoto è un’esperienza drammatica per un comune piccolo come Caldarola con soli cinque dipendenti. Dove le strutture e i mezzi sono ridotti le difficoltà si moltiplicano. Spesso mancano cose indispensabili perché le attività del paese, seppure a ritmo ridotto, possano procedere. Tra queste l’attività scolastica. Così si assiste quasi quotidianamente a dialoghi come questo: “Mancano mobiletti dalla scuola, come si fa? Quelli che abbiamo sono prigionieri della scuola chiusa… Proviamo a vedere se tra le donazioni abbiamo qualcosa che possa essere adatto”.

Le donazioni, sia di alimenti sia di mobili e oggetti, sono una parte importante degli aiuti che arrivano nei paesi del cratere. Ci sono aziende alimentari importanti, ma anche agricoltori e coltivatori della zona che hanno offerto una lista aperta e, quando si ha necessità di quei prodotti, basta una telefonata e in breve arrivano i rifornimenti. Tante sono le chiamate che riceviamo durante la settimana di persone che chiedono se c’è bisogno di olio, di formaggi o altro. Anche così si tamponano le tante necessità. Ma non sempre. A volte può capitare di ricevere anche oggetti inutilizzabili, vecchi Cd o giochi per bambini che chiaramente sono ‘risaliti’ dalle cantine dove avevano riposato per anni, decine d’anni. Donazioni, queste, naturalmente inservibili, ma forse portate al campo pensando di poter fare una buona azione.

A dicembre, nella settimana di presenza a Caldarola, la situazione è ancora molto pesante per le persone. “Solo il 40% degli abitanti è tornato nella propria casa e il 60% delle abitazioni resta inagibile. La chiusura del centro storico per Caldarola non è una questione di poco conto. Con il centro si può dire che si è chiusa tutta la vita del paese”.

Così ha dichiarato il sindaco di Caldarola Luca Maria Giuseppetti che è ritornato sul problema anche di recente, durante la festa di ringraziamento dei volontari che si è svolta a Bologna a maggio. Già in quel momento il sindaco ha espresso enorme gratitudine alla regione Emilia Romagna. «Fortuna” ha detto, “che ho avuto al mio fianco questo aiuto. L’Emilia Romagna ci è venuta incontro con la sua colonna mobile e ci ha dato una mano non indifferente. Se così non fosse stato oggi parleremmo di tutt’altre cose. Ora piano piano gli aiuti stanno rientrando, ma speriamo che resti per noi un supporto. Ogni tanto abbiamo qualche ‘visita sgradita’, un 3.5 ci ha ricordato che l’incubo non è finito: lo sciame sismico continua e non dà pace”.

In dicembre da mesi sono sul tavolo di Deborah Speziani, vicesindaco e assessore ai servizi sociali, le molte preoccupazioni che il terremoto ha portato. “Ce la stiamo mettendo tutta” ha detto l’assessore di origine lombarda e che a Caldarola, dove ha una fonderia, vive da una decina d’anni. “Il lavoro da fare è tanto”.

Due le fasi che fino a dicembre sono state affrontate. La prima ha messo di fronte la necessità di portare gli anziani nella struttura protetta di Montorso vicino a Loreto. Quindi è iniziato il trasferimento negli alberghi della costa. Nelle settimane cruciali non sono mai stati soli. Costanti i rapporti con loro sia attraverso le videoconferenze del sindaco, sia attraverso i messaggi face book oltre ai pullman con i quali hanno potuto, se lo volevano, tornare al paese per alcune ore del giorno. Dal vicesindaco un apprezzamento particolare per i volontari emiliano-romagnoli che nelle settimane del terremoto hanno lavorato a Caldarola.

“Non si tratta solo di lavoro sociale” ha detto, “ma in una situazione molto problematica hanno rappresentato i miei occhi, le mie orecchie e mi hanno dato una mano determinante nel rapporto con i cittadini. Con il trascorrere del tempo l’impegno è stato quello di avvicinare il più possibile i cittadini al paese ed è quello che si cerca di fare ancora. Un’operazione complicata che si scontra di giorno in giorno con gli intoppi, le lungaggini e le incongruenze della burocrazia”.

Un problema, questo, che naturalmente non è rimosso con i mesi del nuovo anno. Anzi, la lentezza ha contrassegnato tutta la storia delle decisioni sull’assegnazione dei moduli di legno provvisori per le famiglie rimaste senza casa. Su questo diverse manifestazioni dei sindaci della zona del cratere sono arrivate anche a Roma. A dicembre, a quarantaquattro giorni dal sisma, i volontari sono stati il sostegno della popolazione da tanti punti di vista. Lo ha ricordato in quel momento la vicesindaco Speziani: “Dire loro grazie è poco. Hanno lasciato le loro famiglie per aiutare noi e non dicono mai di no. È il meno che possiamo dire ai volontari della vostra regione”.

Case pericolanti, viabilità compromessa sia per il paese sia per la provinciale che costeggia un’abitazione tutta impacchettata e ingabbiata su tutto il perimetro perché pericolante. I problemi per l’assessore ai lavori pubblici Gianni Fiastrelli sono infiniti. È la situazione del centro storico, dove palazzi e chiese di pregio hanno subito danni pesantissimi, a dare le maggiori preoccupazioni. In parte sono pericolanti e creano problemi alla sicurezza delle strade su cui non si riesce a intervenire. Saranno necessarie cifre enormi per sistemare il centro così attaccato. Già per la messa in sicurezza si parla di un ammontare da capogiro.

La preoccupazione di tutti noi che conosciamo questi luoghi come turisti è il rischio di perdere un territorio di tanta bellezza… “Spero che questo non succeda” ha detto l’assessore. “Credo che con un intervento tempestivo possiamo salvare questi luoghi. Ma il tempo stringe. L’inverno è alle porte, qui siamo in collina, ma vicini ai monti. Nevica copiosamente e potrebbero esserci infiltrazioni d’acqua, affreschi e dipinti potrebbero risentirne”. L’appello allora come ora è chiaro: “Aiutate il Centro Italia”1.

Nota 1(Come poi si è visto e ho già ricordato la neve si è presentata copiosa complicando tutte le operazioni di sgombero e anche di recupero).[1]

Accanto ai volontari delle associazioni che si sono adoperati per aiutare i cittadini di Caldarola e dei comuni colpiti dal sisma, c’è anche l’impegno istituzionale. Dapprima il supporto al comune dall’Emilia Romagna con il campo: “L’impegno è iniziato immediatamente dopo le scosse del 26 e 30 ottobre” dice Marco Bacchini, funzionario della regione. “In questa fine anno l’attività al campo si è ridotta rispetto all’impegno iniziale che è andato avanti per otto settimane e che ha mobilitato quattrocento-cinquecento volontari da tutti i coordinamenti regionali e associazioni nazionali che hanno partecipato alla gestione del campo. Ora si sta valutando di ridimensionare il nostro impegno. È chiaro che continueremo a garantire il supporto tecnico per dare una mano agli uffici comunali che in questa situazione sono oberati da tanti adempimenti”.

In aiuto sono arrivati anche i funzionari provenienti da alcuni comuni della regione che hanno aderito al progetto solidarietà lanciato da Anci. L’Associazione nazionale dei comuni ha chiesto agli enti locali che hanno una struttura interna organizzata la disponibilità all’invio di personale nelle zone terremotate. Gli enti locali, a loro volta, hanno raccolto le disponibilità dei dipendenti e in diversi sono partiti. L’impegno richiesto è fino alla fine dell’anno ma, vista la situazione, già a dicembre si valuta la possibilità di un prolungamento. Ingente la mole di lavoro che coinvolge diverse professionalità: si va dalla mappatura del territorio alla stesura delle ordinanze di sgombero, ma anche, di non minore importanza, l’impegno nel settore anagrafe.

Di fronte a un disastro di queste proporzioni è come se fosse posta la necessità di rifare la banca dati esistente. Punti cruciali quindi, oltre all’anagrafe, l’ufficio tecnico e il settore dei tributi. Il cuore di tutto è rappresentato dal Centro operativo comunale, il Coc, guidato da Angelo Seri, che costituisce l’unità di crisi creata per far fronte all’emergenza e dispone i servizi del comune in risposta alle esigenze dei cittadini. È passata da qui, ad esempio, la procedura per il servizio di pullman organizzato per i cittadini sfollati verso la costa a cui è stata data la possibilità di tornare nel loro paese se avevano necessità di recuperare alcuni beni personali.

Dal punto di vista operativo la gestione del comune è nel caos. Si pensi che in una situazione di emergenza come un terremoto si azzerano le utenze domestiche, le entrate vengono a mancare alle casse comunali, anche l’imposta sugli immobili si azzera. Che fare? È attraverso le anticipazioni di cassa che si lavora e su quelle poi deve essere fatta la rendicontazione per avere i fondi dallo stato. Insomma, una burocrazia che certo non facilita e non rende flessibile il lavoro soprattutto nella fase di emergenza. In una grande stanza, dove tutte queste operazioni vengono portate a termine, in un angolo svettano il gonfalone del comune e gli stendardi storici che sono stati portati qui dalla sede comunale non più agibile dopo le scosse.

Il lavoro più grosso è l’organizzazione dei trasferimenti delle persone nelle strutture alberghiere della costa. Sono allontanate dal paese seicento persone su milleottocento circa; un terzo in questo momento non si trova più in paese.

E poi c’è il patrimonio edilizio che deve essere controllato e per questo si sussegue l’arrivo di tecnici, ingegneri, architetti con il compito di eseguire un controllo a vista o anche interno agli edifici. Un controllo fondamentale che determina il sostegno economico per le famiglie che hanno la casa inagibile.

Sul piano tecnico inoltre un’altra incombenza diventa strutturalmente determinante: è la compilazione delle schede che classificano gli edifici inagibili, da demolire o ancora recuperabili. E questo significa, nel caso di Caldarola, l’esame di tutte le abitazioni del centro storico. Un lavoro immenso a cui collaborano anche volontari del paese che si occupano di rintracciare i proprietari e fissare gli appuntamenti per redigere le schede che, come si è detto, sono indispensabili per avere un quadro generale il più preciso possibile del danno prodotto. La tabella di marcia fissa per gennaio l’erogazione dei contributi, dopo la valutazione delle domande che a dicembre sono arrivate a trecento.

Nostri compagni al campo fino al 16 dicembre provenienti dal comune di Reggio Emilia sono Elena Poppi e Cristina Cavecchi.

“Sono distaccata dal mio comune” racconta Elena Poppi. “In queste settimane hanno ruotato qui diverse persone da tante città. Il lavoro è tanto: dalla raccolta schede per la richiesta di agibilità al disbrigo delle pratiche per i contributi alle famiglie che devono essere registrate perché successivamente dovranno essere  rendicontate per il rimborso. Ora l’affluenza è minore, ma nei primi giorni dell’emergenza c’erano anche duecento persone in fila. Qui di aiuto c’è molto bisogno”.

Lo conferma Marco Feliziani, responsabile dell’ufficio anagrafe. Spiega come sia importante il supporto dall’esterno e anche dei volontari del paese che hanno in carico le schede delle abitazioni danneggiate. In parallelo ci sono gli aiuti da assegnare alle famiglie che si trovano fuori casa e che devono affrontare tante spese. È anche questo un aspetto dell’emergenza terremoto da considerare.

La gestione della vita quotidiana delle persone ha dei costi a cui, per la fase di emergenza, fanno fronte le risorse pubbliche. Questo comporta un’attenta valutazione delle necessità e una rendicontazione puntuale delle spese sostenute. Una macchina complessa che deve fare i conti, certamente, con un sistema burocratico che francamente è difficile capire come possa essere sostituito. A novembre sono anticipati centonovantamila euro per le famiglie che si trovano fuori casa. Contributi assegnati in base al nucleo familiare per sostenere le spese di un eventuale affitto, ma anche come contributo alla sopravvivenza.

Paola Cavecchi lavora invece all’ufficio tecnico. Il compito principale è la classificazione degli edifici e completare tutta la parte amministrativa. È compresa la redazione dell’ordinanza, l’inserimento degli atti, la banca dati che collega a un sistema che permette di fare verifiche catastali, ad esempio i vincoli di un terreno. Una pratica di questo tipo è piuttosto complessa e abbraccia tanti aspetti.

In un caso di grande emergenza come quella del terremoto è necessario in breve tempo mettere al lavoro tante ditte che devono intervenire sullo sgombero delle macerie e su altri punti caldi; il tempo, in questi casi, è fondamentale. Ed è così possibile, al di sotto dei quarantamila euro, affidare direttamente i lavori attraverso una serie di deroghe, ma in questi casi è necessario produrre la fatturazione elettronica come supporto che motiva la spesa.

“Lavoro complesso, ma nessuna difficoltà particolare. Solo in un primo momento, per l’organizzazione diversa rispetto a quella del mio comune” spiega Paola, “abbiamo dovuto apprendere nuovi programmi e questo in una condizione di sotto organico. Ho trovato in ufficio una grande coesione e un supporto determinante da parte della referente tecnica Lucia Rossi sempre presente e di tutti i lavoratori del comune, uniti da un forte senso di appartenenza. Con noi sono stati molto gentili, ci hanno invitati alla loro cena delle feste e verso di noi hanno mostrato un forte senso di gratitudine”.

Mentre parliamo con i tecnici in supporto al comune, si stanno approntando le iniziative per le feste di Natale imminenti, la prossima settimana è alle porte e non si vuole rinunciare alla tradizione e allo stare insieme. Lo fa anche l’amministrazione comunale che sul tendone della mensa ha affisso un invito e un augurio per le feste: ‘Ripartiamo insieme’. Il senso di comunità, il sentirsi parte di una storia comune è un valore importante per far fronte alle difficoltà.

PARTE QUINTA

Il racconto dei volontari

Provati, ma soddisfatti

Se i ritmi della ricostruzione, che si scontra con un sistema burocratico faraginosissimo, avessero adottato lo stesso ritmo dei volontari, a quest’ora le centinaia di paesi colpiti non sarebbero più stretti nel silenzio dell’abbandono.

Ogni giorno una levataccia per essere pronti alle otto per la distribuzione della colazione e poi alle dodici e trenta per il  pranzo, quindi dalle diciannove e trenta la cena. Sono provati, i volontari addetti alla mensa. Provati, ma soddisfatti. Provati, ma soddisfatti anche i volontari addetti alle pulizie. Centosessanta bagni e docce pulite in sette giorni di lavoro. Un bel record. Un giorno dopo l’altro a disposizione delle ormai poche decine di cittadini di Caldarola che arrivano alla mensa.

Su un lato del tendone della mensa è messa in funzione una raccolta differenziata puntuale. Una meticolosissima separazione degli scarti a colazione, pranzo e cena. Compito, portato a termine con assoluta serietà, che si dividono Alberto e Antonio. Separano i resti di cibo dalle stoviglie di plastica, quelle sporche nell’indifferenziato, quelle pulite nella plastica, idem per la carta. Talvolta nei vassoi resta troppo cibo lasciato intatto. Tante pietanze buttate, uno spreco… Che, siamo americani? si scandalizzano gli operatori ecologici della mensa.

Però l’esempio aiuta a impostare buone pratiche. È sempre la regola. Infatti le stesse persone ospiti della mensa, non tutte ma molte, iniziano dopo qualche giorno a separare i loro rifiuti. Nello stesso campo, a fianco dell’ingresso, diversi cassonetti suddivisi per carta, plastica, indifferenziato e umido. Nel campo si fa così. Basterebbe poco… se anche in un campo di emergenza si riesce a fare, perché è così difficile farlo a casa propria? Ma questo è un altro tema.

Restiamo a Caldarola.

Quando la settimana si avvia alla conclusione, tentiamo un bilancio. Una settimana è il tempo massimo che ciascun gruppo dedica a questo servizio. Si può ripetere a distanza di qualche settimana, ma difficilmente i volontari sono mobilitati per più di sette giorni continuativi. Sia per una ragione legata agli impegni di lavoro dei volontari stessi, sia per l’impegno fisico, la tenuta psicologica che, se venisse meno, vanificherebbe l’obiettivo e lo scopo della presenza su un’emergenza.

“Far stare insieme il gruppo: è questo il mio ruolo fondamentale. Se c’è armonia allora tutto fila liscio” così Mirco Zucchini, capo dei volontari per i sette giorni del 10-17 dicembre a Caldarola. “Nel gruppo dell’Ana” dice, “anche se non ci si conosce c’è un filo conduttore che ci lega. È quello militare che ci ha insegnato a stare insieme agli altri. Ad accettare tutti perché alla sera devi dormire insieme a queste persone e quindi l’accettazione dell’altro è fondamentale. Sai che questi sono i tuoi compagni di viaggio”.

Non si dice preoccupato della responsabilità di far coesistere un gruppo di persone così eterogeneo, per età, esperienze passate e professioni, oltre che per provenienza. “La responsabilità me la sono assunta, sono un volontario anche in quello”. Alle spalle Mirco ha l’esperienza di Finale Emilia per il terremoto del 2012. “Per quattro mesi” racconta, “abbiamo fatto una settimana al mese di volontariato. C’erano da preparare come minimo duecentocinquanta colazioni e altrettanti pranzi e cene per la popolazione colpita. La voglia di fare qualcosa per gli altri: è da lì che è nato l’impegno nella protezione civile, è quella, in fondo, la ragione che ha spinto tutti a partire”.

Come funziona la selezione di un volontario di protezione civile? Nel momento in cui si chiede di diventare volontari, si viene indirizzati in un settore o nell’altro in base alle competenze professionali o di formazione. Per stare in cucina, infatti, occorre avere il libretto sanitario e aver frequentato il corso ad hoc. Angela Magnani (Ana-Piacenza) nella settimana a Caldarola ha avuto un ruolo delicato e di grande responsabilità. Infatti era il punto di riferimento del funzionamento della cucina, degli acquisti per i pasti, della dispensa e del magazzino per la cui tenuta ci sono prescrizioni molto rigide, soprattutto per la conservazione dei cibi, la separazione tra i generi alimentari: carne, verdure, formaggi ad esempio. Le regole sono le stesse applicate per gli esercizi che somministrano alimenti.

Anche Angela ha maturato un’esperienza in un’altra emergenza. Anche lei, come Mirco, durante il terremoto in Emilia, al campo di Finale. Si mostra molto attenta e precisa perché il suo lavoro, e di conseguenza quello degli altri, sia assolutamente di qualità. “È importantissimo” sottolinea, “offrire una dieta completa nei valori nutrizionali, le calorie devono essere adeguate, anche perché chi mangia alla mensa, siano volontari o abitanti, di calorie ne consuma parecchie. Altro elemento da segnalare è l’attenzione particolare alle allergie che ci segnalano le persone che fruiscono della mensa. Di questo dobbiamo tenere conto”. Non è che, visto che le persone non hanno più una casa, i problemi di salute passino in secondo piano. Restano e bisogna tenerne conto. “Anche questo” ne è convinta Angela, “contribuisce a essere vicini alle persone, a rispondere ai loro bisogni: il motivo per cui siamo qui come volontari. La mensa di Caldarola è frequentata da una giovane celiaca e quindi per lei la dieta deve essere particolare e ci siamo attrezzati per poterla ospitare. Per preparare il suo cibo ci cambiamo, puliamo a fondo la cucina per non provocare problemi. È importante essere attenti alle intolleranze alimentari e sono orgogliosa che la nostra sezione Ana di Piacenza abbia organizzato dei corsi su questo argomento. Rappresentano una professionalità in più per i volontari. Proporrò senz’altro di andare avanti su questa strada perfezionando i corsi e l’apprendimento. A questo proposito devo esprimere un particolare ringraziamento al presidente di Ana-Piacenza, Roberto Lupi, e al coordinatore Ana protezione civile, Maurizio Franchi, che sono stati sensibili al problema”.

Per questa specializzazione Angela e la squadra della cucina hanno ricevuto i complimenti durante il controllo effettuato dal veterinario addetto all’esame della conservazione degli alimenti. “Perfetto” è stato il giudizio dell’esperto sui sistemi di conservazione delle vivande fresche e anche sulle innovazioni introdotte nella gestione della mensa, come l’attenzione alle intolleranze che, per una cucina da campo, non è una scelta scontata. Dopo il servizio alla mensa, dopo il tour de force ai fornelli, c’è tempo per cantare. Il canto è alimento per lo spirito.

È Antonio Belloi, modenese di Sassuolo, che intona le canzoni popolari e si porta dietro le voci degli alpini presenti. Non c’è atmosfera alpina senza il canto. Tra loro Armando, originario di Metteglia, che il coro lo frequenta abitualmente. Attorno a un tavolo della mensa in un momento di riposo si raccontano brevemente. Fabrizio Montanari, presente al campo con la moglie Tiziana Ramenzoni e Giorgio Barezzi arrivano da Collecchio di Parma; e poi i piacentini Carmelo Cirillo, Franco Naprini, Armando Perini e la moglie Giusy Quaranta, e Maria Alberta Cammi, la giovanissima del gruppo, ma con alle spalle già esperienze nell’emergenza.

Giusy dà il via: “Noi abitiamo nel Lodigiano e nel nostro paese svolgiamo abitualmente attività civiche in collaborazione con l’amministrazione comunale, come ad esempio il pedibus, e siamo a disposizione sempre per le iniziative del paese a svolgere un lavoro di supporto per la viabilità. Ma naturalmente poi ci sono le attività di protezione civile come la ricerca di persone scomparse oppure come forze di supporto in occasione di grandi eventi”.

“Io sono di Castelsangiovanni” spiega Franco Naprini, l’alpino con la penna più lunga del gruppo. “Nella nostra città siamo impiegati come ausilio alla regolazione del traffico e assistenza, come quando si svolgono gare motociclistiche. Siamo stati presenti anche a Piacenza in occasione della maratona. L’ultimo impegno, prima della partenza per Caldarola, il monitoraggio della piena sul Po”.

Maria Alberta Cammi, poco più che ventenne, è alla seconda esperienza in un campo di aiuto in zona terremotata. È stata di recente, insieme ad altri del gruppo, a Uscerno, in provincia di Ascoli Piceno, e qui ha avuto la prova del fuoco essendo stata nominata sul campo capo-officina. “Quando ho concluso il campo” dice, “sapevo tutto di viti, cacciaviti e di ferramenta in genere”. In quell’occasione, proprio per la giovane età e per il lavoro svolto egregiamente, a Maria e a un ragazzo suo coetaneo è stato assegnato un riconoscimento dai responsabili del campo. Il suo percorso di volontaria negli alpini di Piacenza parte da San Giorgio, il paese dove vive con la sua famiglia. La scintilla tra lei e gli alpini è scoccata dopo la grande adunata nazionale delle penne nere di Piacenza nel 2013. Conosceva il gruppo del suo paese, ma è stato all’adunata che, parlando con alcune persone, ha scoperto le tante cose che si fanno all’interno dell’Ana. Ed è stato un colpo di fulmine, come dice lei stessa. Un colpo di fulmine che l’ha fatta decidere di diventare volontaria negli alpini. Altre giovanissime ragazze con la penna alpina? Una di ventun anni, pure di Piacenza.

Maria Alberta è la più giovane del gruppo e ha in mente un progetto per il suo futuro. Entrare nel corpo degli alpini. La scuola è dura, a numero chiuso, ed equivale a una laurea breve. Ci si arriva per concorso: i posti sono duecentocinquanta e per entrare bisogna superare anche prove di efficienza fisica e psicologica. Maria è intenzionata a provarci. Prima di questa esperienza al campo di Caldarola ha appena concluso il suo primo lavoro a tempo determinato. Dopo il diploma ha frequentato un corso per operatore sanitario e ha svolto questa attività in una struttura per anziani. Ma era un lavoro precario. Della sua prima esperienza racconta un episodio che l’ha colpita. “A Uscerno” dice, “ho visto tante persone piangere, disperarsi. Una signora di novant’anni ha dovuto abbandonare il paese, ma non voleva lasciare la casa. Ha piantato le tende nei suoi campi per restare lì e non andarsene”.

L’esperienza a Finale Emilia nel Modenese nel 2012 è molto presente nei racconti degli alpini di protezione civile. Sono stati impegnati per lungo tempo al campo Robinson.

“Quella volta il terremoto lo avevamo in casa” dicono. “Quel campo ospitava quattrocento persone. Faceva un gran caldo e abbiamo dovuto ombreggiare le tende perché era impossibile sopravvivere diversamente. La parte più difficile di un’emergenza è quando le cose si assestano e occorre gestire la vita di tutti i giorni.

Il primo pensiero quando si interviene in una realtà messa in ginocchio dal terremoto” dice Antonio Belloi, alpino di Sassuolo, “sono le necessità di base. Si montano la mensa, i servizi igienici, il dormitorio e poi via via si aggiungono altre strutture. L’impegno è forte; quando parti, almeno per le prime ventiquattro-quarantotto ore devi lavorare ininterrottamente. Ti tiene in piedi la determinazione e la corsa contro il tempo per rispondere ai bisogni delle persone frastornate, colpite, scioccate dalle scosse: alcune di loro hanno perso tutto. Possiedono solo il pigiama che indossano. È questo che ci si trova davanti. Bisogna avere determinazione e tenere presenti le necessità generali per poter mettere in moto la macchina. Ci sono stati casi in cui, come per l’alluvione nello Spezzino, in val di Vara, devi prelevare tutto il paese e portarlo in salvo. Non c’è tempo da perdere e la prima cosa da fare è provvedere perché tutti abbiamo un piatto di minestra e un posto dove dormire. Questi sono i primi passi da compiere, poi interviene l’Ausl, soprattutto per seguire anziani e bambini. Per queste situazioni particolari ci sono persone che si attivano immediatamente, con specialisti che possono affrontare i traumi”.

E via ancora, con i ricordi. Dall’intervento della colonna mobile Barilla a Uscerno in provincia di Ascoli Piceno. “L’azienda, che ha creato un’apposita struttura mobile, è arrivata” dicono i volontari, “con un container e con il loro personale e in un attimo hanno messo a punto la cucina funzionante; questo ci ha permesso di avere un poco più di tempo per avviare la nostra struttura”.

E poi la mente corre all’indietro a Onna, al terremoto dell’Aquila: “Vi ricordate quando abbiamo montato la cucina? Erano due camion, il piazzale non era pronto e abbiamo dovuto lavorare parecchio per sistemarlo. Alla fine siamo riusciti a fornire quattrocento colazioni. Comunque sia, fatica su fatica, problemi su problemi, ma poi sentirsi dire dalle persone frasi come carezze: ‘Ci avete aiutato a non pensare alle cose brutte’… beh, è una gran cosa, non senti più la fatica, le difficoltà e i piccoli screzi che, lavorando nella concitazione, possono crearsi. È una sensazione impagabile. Significa che il nostro lavoro, quello di tutti messo insieme, è stato efficace. Noi siamo lì per loro, per aiutarli in una tragedia enorme. Si tratta di centinaia, migliaia di persone che escono di casa la mattina e devono ringraziare il cielo se hanno salva la vita, ma non hanno niente addosso… e la casa distrutta. Certo per quelle famiglie però i problemi restano. Eccome, se restano! Anche quando le case, le fabbriche saranno state sistemate, le ferite interiori come si rimargineranno, soprattutto per chi ha perso dei familiari, degli amici sotto le macerie?”.

Gli alpini al lavoro

Ai volontari, quando sono presenti in una zona terremotata, a parte la missione assegnata, può capitare di dover dare aiuto anche per urgenze che si presentano al momento. E così è con il compito di entrare nella scuola media e sgombrarla di alcuni oggetti necessari alle insegnanti e agli studenti ora ospitati in un altro edificio adibito a scuola.

“Alle otto, alle otto del mattino alzabandiera, mi raccomando… puntuali, non fate tardi” ci avvisa Mirco Zucchini, il responsabile dei volontari del campo, ogni sera alla fine della giornata di lavoro. Puntuali per l’alzabandiera.

Il raduno è di fronte al campo accanto alla roulotte dell’Associazione nazionale carabinieri che hanno il compito di sorvegliare la zona. È uno di loro che fa salire lentamente la bandiera sull’asta di legno improvvisata, seguendo le note dell’inno di Mameli. Alle otto tutti lì e poi la giornata può iniziare.

Nel pomeriggio si profila un impegno importante: “Oggi andiamo a liberare alcune aule della scuola media. C’è da recuperare materiale didattico, computer, libri, registri, mappamondi. Tutto il materiale va portato nel nuovo edificio che ospita ora le aule, l’ex colorificio donato dal proprietario per permettere la ripresa delle lezioni sospese per impraticabilità dei locali” annuncia Mirco.

La scuola media si trova sulla strada principale che porta nel centro storico ed è appena fuori dalla zona rossa. L’edificio non ha subito danni gravi, ma il rischio per la struttura deriva dal fatto che è attaccata alla scuola elementare che invece è stata profondamente lesionata e il cui destino è inevitabilmente segnato (l’edificio infatti sarà abbattuto alcune settimane dopo). Sui giornali locali, proprio in considerazione del duro colpo che il terremoto ha dato alle strutture scolastiche, è stata avanzata la proposta di costruire un nuovo polo che possa essere utilizzato da tutti i ragazzi del territorio.

Ma questa è storia di domani, semmai.

Ora l’urgenza è quella di tamponare le necessità ordinarie della quotidianità. Le lezioni devono proseguire, anche se in uno spazio provvisorio, e a breve ci saranno le vacanze di Natale che potranno ridare un po’ di fiato per rimettere in sesto l’organizzazione e la logistica della scuola. Per quanto è possibile, naturalmente. L’appello lanciato dal comune per conto delle insegnanti viene raccolto dagli alpini emiliani che si mettono a disposizione e, concluse le incombenze legate alla mensa e alla dispensa, dopo un veloce cambio d’abito, si infilano guanti e casco di protezione e si dirigono verso la scuola. Apripista per entrare nell’edificio, la cui staticità è minacciata dall’equilibrio instabile dell’attigua elementare, sono i vigili del fuoco.

Caldarola dal 30 ottobre è senza scuola. Nel predisporre le nuove aule di emergenza viene fatto uno sforzo evidente per cercare di rendere questi spazi normali per i bambini che li frequentano. Però mancano tante cose e alcune di queste, come i libri necessari per le ricerche e gli stessi lavori realizzati dai ragazzi, si trovano ancora nel vecchio edificio della scuola media: è questo uno dei compiti che si accollano gli alpini e anche i rappresentanti dell’Associazione carabinieri che compiono un sopralluogo negli edifici abbandonati delle medie e poi traslocano i materiali didattici.

Ad aiutarli nella scelta dei materiali le assistenti scolastiche che sanno quali sono i libri e gli oggetti necessari per il funzionamento della scuola. Un rapido sopralluogo nell’edificio: sulle pareti ci sono diverse crepe, non di quelle a croce che destano grande preoccupazione, ma lo stesso fa una certa impressione stare lì dentro, tra pareti smaltate di verde smeraldo, senza banchi, gli armadi pieni di libri. Sul pavimento di qualche aula resti di palloncini colorati, magari di una festa di compleanno, chissà…

Il lavoro di sgombero procede.

Questa la si può chiamare una scuola senza fissa dimora. “In tre anni quattro traslochi, e ora un altro provocato dal terremoto” commentano le impiegate della scuola che osservano dall’esterno i lavori di sgombero. Indicano dove trovare le cose e una di loro con il casco di protezione si offre volontaria per accompagnare gli alpini nel recupero. “Nello scantinato, mi raccomando, andate nello scantinato e recuperate il quadro della Madonna. Per noi è importante”.

La scuola ha tenuto, non è danneggiata, i rischi derivano dall’edificio giallo accanto la cui facciata è semicrollata. Resta appena, ma inchinata verso il suolo, una bandiera dell’Europa: quasi una triste metafora delle difficoltà che l’Unione sta vivendo. C’era anche la bandiera italiana, ma è caduta travolta dai mattoni ed è stata sepolta dai detriti. I  volontari del campo qualche settimana prima l’hanno recuperata e ora viene usata per l’alzabandiera al campo. Il tricolore in un ‘luogo non luogo’ è un punto d’appiglio da dove riprendere l’identità infranta.

Mentre il trasloco procede, si susseguono i racconti del terremoto. Quasi tutte le assistenti scolastiche presenti hanno la casa danneggiata. Chi è ospitata nella casa dei suoceri a Camporotondo, chi ha trovato ospitalità a Cessapalombo. Per una di loro anche l’ufficio è inagibile: si trovava in piena zona storica a Caldarola, e ora è stato portato in un paese vicino. Il materiale recuperato dalla scuola media viene trasferito nell’edificio ‘Mille colori’, così lo chiamano per rendere omaggio all’uso precedente. Si trova nella zona industriale ed era un vecchio negozio di vernici, messo ora a disposizione dai proprietari.

“Le aule sono ampie: in ognuna c’è la lavagna elettronica e i bambini l’hanno già personalizzata con i loro disegni e colori. È stata sistemata a tempo record” spiegano. Accanto ha trovato spazio la scuola materna: alcuni di quei moduli sono stati donati dalla città di Cento che cinque anni prima era stata colpita dal terremoto. In quel modulo per cinque anni hanno studiato i bambini della città ferrarese e ora è arrivato qui a Caldarola. I bambini hanno voluto lasciare alle pareti i disegni realizzati nel corso degli anni: segno che si può ripartire e ricominciare, è il messaggio. La scuola che arriva da Cento è stata inaugurata pochi giorni prima del nostro arrivo dai presidenti delle due regioni Marche ed Emilia Romagna.

Futuro polo scolastico o no, intanto la cittadella degli studi ha preso forma a Caldarola all’interno dell’area industriale a valle del paese. Quella è diventata l’area scolastica e lo è ancora oggi. Da quell’esperienza è nata un’amicizia tra i bambini delle due zone che hanno avviato una corrispondenza a distanza e nel corso dell’anno scolastico hanno suggellato un vero e proprio gemellaggio, ufficializzato all’inizio di maggio, che coinvolge alcune classi della primaria e alcune della secondaria di primo grado di Caldarola, oltre alle scuola dell’istituto comprensivo ‘Il Guercino’ di Cento.

PARTE SESTA

La partenza

Il viaggio

Riprendo qui l’interrogativo iniziale di questa testimonianza: “Perché” ci si chiede in quell’inizio di storia, il 30 ottobre dello scorso anno, “potremmo essere ritenuti idonei per diventare volontari?”.

Ce lo chiediamo mentre si assiste alla testimonianza in diretta del dramma che si sta compiendo tra Marche, Lazio e Umbria. Ecco dunque gli sviluppi che poi, come si è visto, ci porteranno a Caldarola insieme agli alpini.

In questa ultima parte inserisco il racconto del viaggio per raggiungere le Marche dove noi, unici estranei del gruppo, siamo accolti con grande spontaneità. Ma ci sono anche i dialoghi, gli aneddoti e le battute che hanno rappresentato il filo conduttore di un lungo viaggio iniziato a notte fonda e concluso sotto un sole splendente in una terra bastonata dalla forza della natura.

Un ritratto umano di grande valore.

Vogliamo partire. Rimugina e rimugina, il pensiero non ci lascia. Così si decide di chiamare la persona più indicata per avere le informazioni sul come fare e soprattutto se ci sarebbe la possibilità di provare questa esperienza. Convinti che solo vivendo come chi non ha più niente, anche se per poco tempo, si può capire fino in fondo che cosa si prova in una tragedia come quella del terremoto, cominciamo a cercare le informazioni. La persona giusta al momento giusto è Filippo Zangrandi, collaboratore di Libertà, ma anche funzionario della regione, impiegato nell’assessorato della protezione civile guidato da Paola Gazzolo. Chi meglio di lui potrebbe darci le dritte? Dopo un primo momento di stupore Filippo dice: “Non ci sono problemi: se come giornalisti volete andare nelle zone del terremoto è semplice”.

“No, no, Filippo, non si tratta di fare una comparsata di qualche ora, in un giorno qualsiasi, e poi tornare e fare il compitino. Non è questo che vogliamo. Vogliamo fare una settimana da volontari veri e dare il nostro contributo concreto per aiutare i cittadini. Non è sufficiente raccontare quelle storie, tingersi il volto di qualche lacrimuccia mentre lo fai. Le vogliamo vivere, toccare con mano quelle storie e immedesimarci nel nulla in cui queste persone sono precipitate. Con l’unica ricchezza a disposizione rappresentata da noi stessi. Solo dopo che avremo vissuto senza avere nulla, dormito in branda insieme ad altre persone sconosciute prima di allora, mangiato nel vassoio della mensa e utilizzato i servizi e bagni comuni, solo allora le racconteremo quelle storie determinate dal potere assoluto del terremoto. Bene”.

“Per fare quello che chiedete” spiega Filippo con il tono un po’ rassegnato, “bisogna aderire a un’associazione di volontari di protezione civile, fare il corso base, essere riconosciuti idonei e poi si parte. Ma i tempi sono molto stretti” ci avverte. “Dal 10 al 17 dicembre parte da Piacenza una squadra della protezione civile degli alpini, ma non so se potrete fare tutto quello che serve. Vi dò il contatto con Maurizio Franchi, il coordinatore provinciale dell’Ana protezione civile e avrete le informazioni necessarie. Comunque… volevo dirvi che è molto bello quello che volete fare. Vi ammiro”.

“Grazie, Filippo” rispondo e non nascondo che in quel momento si manifesta preoccupazione e anche un po’ di vergogna per aver pensato che bastasse mettere in piazza il proprio sentimento per aver aperte le porte del volontariato. Bisogna saperci fare. Bisogna sapere dove mettere le mani per non diventare un problema e andare ad arricchire una statistica che in fatto di disgrazie non lascia certo vuoti.

Informazioni preziose, dunque, ma anche un primo ostacolo. Infatti i tempi stringono e ci chiediamo  come potremmo fare ad avere accesso a un corso di base che non era programmato. Impensabile immaginare che possa essere organizzato in così poco tempo. Men che meno per soddisfare la voglia di due persone che hanno scoperto d’un tratto il sacro fuoco del volontariato… Pensieri scoraggianti che, via via, ci portano a pensare che l’idea sfumerà. Poi riprende vigore la voglia, la determinazione e il desiderio di essere presenti.

Via libera

Oltre alla carta bianca per la partenza, c’è poi un altro inghippo da risolvere. Riguarda il lavoro. Se partissimo come volontari di protezione civile io, dipendente del giornale, potrei utilizzare la legge che, per il periodo in cui si svolge l’opera di volontariato, prevede il rimborso dei giorni non lavorati e nessuno ne avrebbe un danno economico, ma evidentemente per averne la possibilità è necessario il benestare dell’azienda.

A quel punto, a causa dei tempi molto ravvicinati in cui si svolgerà la missione, il salvifico articolo 9 del decreto 194 del 2001 non potrebbe essere applicato perché questa strada sarebbe possibile unicamente se inseriti nel registro regionale di protezione civile Starp; per di più mancano i tempi tecnici per il corso base.

Una possibilità si apre comunque attraverso gli alpini di Piacenza che ci ricevono con molta gentilezza, ricordandoci i percorsi necessari per entrare nella protezione civile. Percorsi che richiederebbero dei tempi che davanti a noi non abbiamo, visto che la partenza del gruppo piacentino per il campo di Caldarola è imminente: dal 10 al 17 dicembre e si è già a fine novembre. Ma inizia comunque la tappa di avvicinamento con gli alpini di Piacenza.

Il primo passo è l’incontro con il presidente provinciale Ana Maurizio Lupi. Lo incontriamo nella sede di via Cremona in una freddissima sera di fine novembre. Ci accoglie con cortesia impegnandosi a verificare, con i suoi superiori di Bologna, la fattibilità del progetto che, vista l’impossibilità di frequentare il corso per volontari, ci vedrebbe come aggregati amici degli alpini se sarà approvata la partenza.

I giorni passano e non succede nulla. Intanto al giornale è tutto pronto per la mia assenza di una settimana. Qualche permesso residuo da utilizzare e poi un paio di giorni come inviato del giornale che il direttore Stefano Carini mi ha prospettato.

“Non potrò scrivere da là” obietto.

“Scriverai quando torni. Fai un buon lavoro, ci vediamo tra una settimana” mi rassicura.

Sciolto questo nodo, restano gli alpini da cui deve arrivare l’ultima parola per il via libera alla nostra partenza.

“A Bologna ci hanno detto che la cosa si può fare, ma per statuto anche gli amici degli alpini devono essere iscritti” ci informa il presidente. “Ora dobbiamo verificare se sia possibile iscrivervi a conclusione dell’anno quando già si è attivata l’iscrizione per il nuovo anno, ma senza l’adesione a un’associazione non è possibile diventare volontari di protezione civile”.

Ancora attesa, anche se le premesse sono più che buone per avere un responso positivo alla richiesta. Infatti qualche giorno appena e siamo di nuovo convocati nella sede degli alpini per il suggello ufficiale della nostra adesione.

“Per i ragguagli della partenza?”.

“Ah, per quelli dovrete sentire Maurizio” ci informa un alpino che esegue le pratiche burocratiche del nostro ingresso e che, non senza qualche espressione perplessa, risponde a chi gli consiglia di registrarci in un modo diverso da quello utilizzato.

“Ma va bene così, che credi? tra un mese non saranno più iscritti ‘questi due giornalisti’”, risponde, accentuando il tono un po’ polemico sulla finale della frase.

Al nostro arrivo, chi ci ha accoglie non è informato dei colloqui precedenti e esprime qualche perplessità sulla possibilità che possiamo partecipare alla prossima partenza per Caldarola. Poi, a seguito della nostra insistenza e vedendoci convinti, si persuade che non ha davanti due visionari. È certo che una richiesta così particolare da due persone sconosciute al mondo delle penne nere certamente non è consueta.

Sbrigate le pratiche del caso, ora abbiamo le carte in regola per partire. Sui dettagli dell’appuntamento si devono ancora prendere accordi, ma la partenza è fissata per sabato 10 dicembre alle quattro e trenta del mattino e nel gruppo ci saremo anche Alberto e io. Punto di ritrovo il deposito della protezione civile in via Pennazzi, una laterale di via Colombo a Piacenza.

Se sulla logistica non abbiamo altro da sapere, qualche informazione invece è necessaria su come affrontare questa esperienza; visto che siamo aggregati, solo aggregati e non soci alpini, non abbiamo a disposizione una divisa e quindi si parte con abiti propri, naturalmente adeguati alla stagione. Suggerito il sacco a pelo perché nel container in cui dormiremo le pareti hanno uno spessore di poco più di quattro centimetri e i gradi sottozero si faranno sentire.

Un sacco a pelo? Bisogna procurarli. Così la domenica precedente la partenza per le Marche ci precipitiamo in montagna dove sono rimasti i nostri sacchi a pelo. Un’andata e ritorno in giornata con anche una tappa ai mercatini di Natale sud tirolesi.

Ora non manca proprio nulla. La valigia è pronta, venerdì è l’ultimo giorno di lavoro e il sabato si va. Insieme agli indumenti e al sacco a pelo ho anche con me una telecamera che mi è stata affidata da Nicoletta Bracchi, direttore di Telelibertà, per realizzare un filmato sulle storie dei volontari piacentini presenti in questa settimana prima di Natale nel cuore dell’Italia colpita dal terremoto.

E sarà questo poi il titolo delle otto pagine realizzate per il quotidiano Libertà, uscite prima di Natale, oltre a uno speciale trasmesso a Telelibertà nella serata di San Silvestro su questa esperienza. Quelle immagini sono poi utilizzate per un video realizzato dalla Regione per festeggiare e onorare i volontari emiliano-romagnoli che hanno lavorato nelle zone del sisma in Centro Italia, video proiettato il 27 maggio 2017 a Bologna.

È da quest’esperienza giornalistica che è nata l’idea di questo piccolo volume di testimonianza. Un racconto che, insieme alle lacerazioni interiori toccate con mano venendo a contatto con i cittadini di Caldarola, i loro amministratori per mesi in prima fila per affrontare un’emergenza, ha messo i riflettori anche sul lavoro dei volontari che dalla scorsa estate, ad Amatrice nell’alto Lazio, in Umbria e nelle Marche, non hanno mai mancato di dare il loro appoggio concreto alla popolazione. Quello del supporto alla popolazione, infatti, è sotto varie sfaccettature il compito primo dei volontari che fanno riferimento a una rigida organizzazione di cui l’istituzione regionale tiene le fila.

È notte fonda e si parte

Ancora un flash back: torniamo alle quattro e trenta del 10 dicembre 2016. In via Pennazzi l’incontro con i nostri compagni di viaggio. Non li conosciamo e loro non conoscono noi. Per noi loro sono alpini, per loro noi siamo ‘i due giornalisti’ che vanno a Caldarola con i volontari delle penne nere, ma noi ci sentiamo lì per essere solo volontari.

L’impreparazione dei neofiti, il timore di arrivare in ritardo sul luogo convenuto fa sì che alle quattro, quando la partenza è fissata alle quattro e trenta, siamo già sul posto. Strada deserta, una nebbia fittissima che avvolge ogni cosa e rende l’asfalto bagnato come dopo la pioggia. In lontananza le voci di alcuni nottambuli che ancora hanno energia per trattenere gli ultimi scampoli della notte ormai agli sgoccioli. Restiamo sull’auto parcheggiata in attesa dell’arrivo di qualcuno, assonnati e ansiosi di dare il via a questa avventura. Due fari a un tratto ci illuminano e vengono verso di noi. L’auto si ferma di fronte al cancello del deposito, scende una giovane donna con i capelli lunghissimi che porta una divisa color lime. Ci siamo: è una dei nostri compagni di viaggio.

Anche noi scendiamo dall’auto e ci avviciniamo per presentarci. È il primo incontro con Maria Alberta Cammi, una giovane di San Giorgio che già ha alle spalle un’esperienza di volontariato proprio in queste zone del Centro Italia. Ad accompagnarla i genitori. “Con questa nebbia” spiega la mamma, “non ci siamo fidati a lasciarla venire da sola, a quest’ora poi…”.

Prendiamo l’auto e la parcheggiamo nel cortile del deposito dove resterà per una settimana. Attendiamo l’arrivo degli altri cinque compagni di viaggio. In tutto saremo otto piacentini e poi a Bologna si farà una tappa e si aggregheranno altri alpini dell’Ana-Rer. Alla spicciolata arrivano tutti. Scarico dei bagagli, saluti agli accompagnatori, la firma per registrare la partenza, la messa in moto del furgoncino carico all’inverosimile di bagagli e sacchi a pelo, foto di circostanza e poi si parte.

I nostri sei compagni di viaggio si conoscono a fondo tra loro e hanno esperienze comuni di volontariato. Sono Angela Magnani, Franco Naprini, Carmelo Cirillo, Armando Perini e la moglie Giusy Quaranta; insieme a Maria Alberta Cammi ci accolgono con grande simpatia e anche curiosità. Ci aspettano un paio d’ore di strada confidando nella clemenza della nebbia che a Piacenza da giorni non perdona. Alla guida Franco, affiancato da Angela. L’appuntamento a Bologna è programmato per le sei e trenta al deposito regionale della protezione civile dove ci attenderà Diego Gottarelli che ci darà i ragguagli sui compiti assegnati al gruppo Ana-Rer per la gestione della cucina nella mensa da campo a Caldarola.

I compagni di viaggio

Il viaggio sul pulmino ci serve per prendere contatto tra di noi. La compagnia è di quelle che nonostante sia l’alba non lascia spazio al sonno che pure bussa con insistenza ai nostri occhi. A tenere vivo il gruppo il simpaticissimo Carmelo: racconta storie di vita paesana che abbracciano con la stessa intensità la sua Calabria e la sua Borgonovo, dove da decenni vive e dove fin da giovanissimo ha lavorato.

Cirillo chiede, racconta e rievoca interpellando di volta in volta i compagni sulle esperienze trascorse nei terremoti precedenti dall’Aquila a Finale Emilia fino a quest’ultimo. In pochi anni tre terremoti che hanno spazzato via storia, persone e messo in ginocchio la parte d’Italia che abbraccia i due mari.

Ma non è solo il terremoto che li ha portati in giro per l’Italia. Giusy e il marito Armando ricordano quando alcuni anni fa sono intervenuti a Cesena sepolta dalla neve. “Montagne di neve che mai laggiù avevamo visto” raccontano. L’immagine nel racconto è chiara e nitida e alla mente affiora una scena di Amarcord di Fellini con una Rimini appunto affondata nella neve.

Intanto nella nebbia il pulmino va e i nostri compagni di viaggio continuano a raccontarci le loro esperienze passate, facendoci sentire ad ogni chilometro sempre più parte del gruppo.

“In ogni emergenza siamo presenti, come quella della bomba d’acqua a La Spezia” dicono Carmelo e Armando e aggiungono: “Ci trovavamo a Borghetto Vara nell’ottobre del 2011 e si dormiva con gli occhi aperti per il timore che potesse succedere qualcosa nella notte, il paese era stato tutto evacuato: erano caduti in brevissimo tempo cinquecento millimetri di pioggia e morirono undici persone”.

Alluvione, e la mente corre anche a quella che ha sconvolto la Val Nure nel settembre del 2015. Anche lì la mano dei volontari è stata provvidenziale. E tra le righe del racconto una certezza viene fuori. Al di là di ogni esercitazione, quello che il volontario mette in campo nelle situazioni di emergenza è prima di tutto il proprio sentire, la spinta ad agire per portare, ognuno nel proprio piccolo spazio di competenza, un beneficio alle persone che in quel momento stanno soffrendo.

È questo il faro di chi opera nel volontariato. Al di là degli schemi, ma allo stesso tempo dentro gli schemi, perché bisogna fare molta attenzione alle spinte personali e alle fughe in avanti che d’istinto possono scaturire.

Il volontariato non è questo.

Significa entrare a far parte di un gruppo, di un insieme che deve avere delle regole; ciascuno deve avere il proprio ‘ingaggio’ e rispettarne i contorni, altrimenti si rischia di vanificare anche il lavoro degli altri. Anzi, la prima regola per un volontario, che intenda fare il proprio lavoro con coscienza e con efficacia per tutti, è saper valutare i rischi; sconsigliate e aborrite dunque le spinte facinorose che rischiano di mettere a rischio la propria persona costringendo l’intero gruppo a distogliersi dalla missione generale per andare in soccorso del volontario che si è messo nei guai. A quel punto non solo si diventa inutili alla causa, ma addirittura dannosi perché si costringono i componenti della squadra a mettere il tuo salvataggio nelle priorità, quando le priorità sono ben altre: il volontario è attivato per aiutare chi si trova in emergenza non per essere causa di emergenza. Una lezione sul campo che i nostri compagni di viaggio ci donano, macinando quei pochi chilometri che ci separano ormai da Bologna. Da lì poi raggiungeremo Caldarola con il compito di gestire la mensa.

Ancora il ricordo va ad altre esperienze perché la vita di un volontario è come una parete bianca che di volta in volta si tinge dei colori, dei volti, dei paesaggi dove ha portato il suo aiuto.

“A Caldarola lavoreremo in cucina” dice Carmelo ad Angela che avrà la responsabilità della macchina e del magazzino. Il pensiero corre a un’esperienza precedente.

“Il campo Robinson a Finale Emilia era gestito dall’Ana-Rer. C’erano tante persone a cui dare da mangiare e la situazione si è protratta per mesi. Lì abbiamo conosciuto altri alpini che ritroveremo qui in questa settimana” mi dice Armando. E poi, rivolgendosi a chi si trova sui sedili anteriori: “Di’, Carmelo, ricordi quante patate ci hanno messo a pelare? Quintali, tonnellate… non si finiva più di pelar patate…”.

“Armando, che ti devo dire? Peleremo patate anche qui se sarà necessario. L’importante è che non siano cipolle!!! Ahah…”.

Serve un caffè all’autogrill, sono ormai le sei. Il buio naturalmente è ancora pesto, la nebbia si è solo diradata un poco, ma siamo sicuri che tra breve a Bologna si sarà alzata e allora il percorso sarà più agevole. Ormai, dopo quasi un paio d’ore di cammino, in otto insieme nel piccolo abitacolo di un pulmino che si fa onore sulla strada nonostante gli anni alle spalle, sembra di essere già diventati amici. Dopo solo due ore, sembra di conoscerci da sempre con quelle persone che non avevamo mai visto. Complice il buio che sfuma i contorni e accomuna le persone; e poi quello stare insieme ha una ragione comune: mettersi a disposizione di persone che hanno bisogno. Questo basta per fare di noi una piccola comunità. In questi momenti mi sembra che le vite private, l’individualità di ciascuno, le cose che si sono lasciate a casa siano lontane anni-luce, non già poche decine di minuti.

Il caffè è l’agognato approdo di questo momento.

Prima di arrivare a Modena c’è spazio per altri racconti e altre considerazioni generali. Carmelo parla della sua vita, della sua esperienza di lavoro, del figlio: “I giovani devono darsi da fare. Cari miei, gli dico sempre, l’età passa in un attimo e quindi datevi da fare. Quando si arriva a sessant’anni si è nella seconda età e quando due persone sono insieme da quarant’anni significa che la guerra è stata combattuta… E vinta. Non è vero, Armando?”.

Una risata stempera tutto… e poi si ha voglia di sentire il profumo del caffè e Carmelo si rivolge al nostro autista: “Ehi, Franco, laggiù vedo le luci dell’autogrill. Non sarebbe ora di un caffè? Non siamo in ritardo, no? Che ne dite, ci fermiamo?”.

“Certo, Carmelo. Caffè sia”.

Lo spazio di sosta è deserto. Gli inservienti svogliati non hanno ancora avuto il turno di sostituzione, sono divertiti a osservare un gruppo di alpini così assortiti e ridanciani, di buon umore nonostante la levataccia che si legge dalle pieghe dei loro volti, dalla fissità del loro sguardo. Solitamente impermeabili a quello che hanno di fronte, gli addetti al bar diventano partecipi, ci chiedono da dove arriviamo e dove siamo diretti.

“Ah, ecco il perché delle vostre divise. Da quelle parti stanno messi davvero male. Hanno bisogno di tante cose e chissà se si rimetteranno in carreggiata dopo quello che è successo”.

Mai come quando il relax è piacevole il tempo corre veloce e l’orologio impone la tabella di marcia, così Franco imprime un’accelerata: “Su, ragazzi, presto, andiamo, abbiamo ancora alcuni chilometri e poi a Bologna spero di ricordare la strada per il magazzino. Dobbiamo essere puntuali per le sei e trenta. Non dobbiamo farci aspettare!”.

A nulla valgono le richieste di indulgenza… “Suvvia” oso dire, “siamo in fondo quelli che arrivano da più lontano e poi… con la nebbia”.

“Non ci sono scuse: se si arriva da più lontano si parte prima. Arrivare in ritardo non è un buon biglietto da visita”.

Bene, si risale sul pulmino e ora l’impegno di tutti è quello di ‘tom tom umano’ per assistere Franco una volta usciti dall’autostrada. Nessun problema per orientarsi: il deposito regionale della protezione civile si staglia presto sul nostro orizzonte che, nel frattempo, si è liberato dalla nebbia e ci consente di vedere lo skyline bolognese. Davanti a noi il santuario di San Luca sembra tanto lontano dalla città, ma si raggiunge con un percorso di poco più di tre chilometri partendo dal centro cittadino.

Intorno sono ancora macchie e ombre, ma di lì a poco sarà già colorato dalle tonalità dell’aurora. Alla nostra ripartenza il cielo è splendidamente rosa su uno sfondo di azzurro che via via si fa sempre più intenso. Siamo tra i primi ad arrivare. Bolognesi e modenesi sono già ad attenderci. Mancano all’appello tre volontari da Parma che hanno avvisato di un leggero ritardo.

Ad aspettarci è pronto un pullman della croce rossa, mezzo che ci porterà a Caldarola. Ora di arrivo prevista  intorno alle undici e trenta: si dovrà raccogliere il testimone dai volontari del coordinamento di protezione civile di Rimini che hanno condotto il servizio mensa nella settimana che si va a concludere.

Il presidente regionale Ana, Dario Gottarelli, saluta i volti noti che di mano in mano arrivano e non ha difficoltà a individuarci subito. Siamo gli unici senza la divisa della protezione civile giallo cedro, senza cappello piumato, e forse anche gli unici con l’aria un po’ persa, di quelli che non sanno esattamente dove sono e, soprattutto, come si devono comportare per non apparire troppo inadeguati. In cerchio, in quell’enorme spazio, ci illustra brevemente quello che ci aspetterà a Caldarola.

Due parole sui compiti: gestione mensa con la piacentina Angela Magnani responsabile della cucina, quindi lavori per il mantenimento del campo dove il servizio di vigilanza sarà svolto dall’associazione carabinieri che arriva da Rimini.

“La situazione là non è più così caotica” spiega, “perché ora molte famiglie, e soprattutto gli anziani che non hanno problemi con il lavoro, sono stati portati negli alberghi della costa dove saranno ospitati per i mesi invernali in attesa che poi a Caldarola, ma anche nei paesi vicini, arrivino i moduli per le casette”.

Questo si sperava a dicembre, ma l’attualità dell’oggi non ci dà alcuna serenità. Le casette, seppure provvisorie, sono ancora un sogno irrealizzato per i più.2 nota

Alla mensa ogni giorno bisogna fornire colazione pranzo e cena per i cittadini rimasti senza una sistemazione (circa un centinaio) e per i volontari. Ma non si può perdere altro tempo. È necessario sbrigarsi, i minuti passano veloci, la strada da percorrere è ancora lunga, le prime luci dell’alba cominciano a illuminare i nostri visi assonnati. Abbandonato il pulmino che ci ha portati fin qui da Piacenza, depositati i bagagli nella stiva del pullman della croce rossa si sale. Partenza.

Verso le Marche

Quando il pullman muove i primi metri, il cielo si tinge di rosa e si preannuncia una bella giornata di sole. La nebbia padana è alle spalle, ma l’ansia di arrivare no. Sono infatti le sette e quindici quando lasciamo Bologna e si va in direzione Ancona. Si attraversa la zona industriale della ‘dotta’, capannoni, viali alberati illuminati per le imminenti feste di Natale, ancora capannoni e il deserto, al sabato non si lavora oppure la sirena suona più tardi. Sul pullman ci si presenta, impegnati a non farci percepire come ‘perdigiorno’ in cerca di emozioni. L’intesa è subito stabilita. Ora abbiamo di fronte almeno quattro ore di viaggio, la condizione migliore per raccontare storie vissute.

Tra una chiacchiera e l’altra si sono fatte le nove e trenta, quando passiamo l’uscita di Fano. Il pullman mangia chilometri, siamo entrati nelle Marche, si avvicina la nostra meta e dal terremoto si passa a parlar d’altro, come la festa di paese nel Modenese, famosa perché il re della festa è uno zampone da ottocento chili.

Arriviamo a Civitanova. Il paesaggio che ci conduce è bellissimo, tocchiamo Recanati, la città della poesia, con un orizzonte di colline a destra e il mare a sinistra. A Civitanova s’imbocca la strada dell’entroterra, a breve saremo a destinazione. Tra il mare e Caldarola una cinquantina di chilometri. Tra il mare e l’Appennino campi e campi coltivati a ortaggi e qualche capannone dove si fabbricano scarpe. A Tolentino, sullo sfondo, una cima innevata, poi la sagoma del paese con il suo castello e i campanili.

Il dolore sta là di casa.

Il pullman della croce rossa ce l’ha fatta. Il simpatico autista, che ha scherzato per tutto il viaggio raccontando aneddoti della sua Calabria e duettando con Carmelo, ci verrà a riprendere tra sette giorni.


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