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Servizi sanitari pubblici: corto circuito tra necessità e pochi soldi e personale

Traditi i propositi del post pandemia tesi a potenziare i presidi territoriali. Avanza un comune sentire che sa di privatizzazione
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Come si conciliano il maggior bisogno di salute, una più forte richiesta di servizi, con la scarsità dei fondi a disposizione e la mancanza di personale sanitario? Questo sarebbe già da considerare un preoccupante corto circuito in atto nella sanità pubblica, ma non finisce qui. L’impressione è che si vada diffondendo nell’immaginario collettivo l’idea che, d’ora in poi, è meglio far da sé e non aspettarsi troppo dal sistema sanitario pubblico che, sottoposto a ripetuti tagli nel corso degli anni, considerato un bancomat per finanziare altro, desta non poche preoccupazioni.

Partendo dall’ambito regionale va registrata l’approvazione da parte della giunta della proposta di legge rivolta al Parlamento per garantire maggiori finanziamenti al sistema sanitario pubblico.

“La proposta riguarda l’incremento del finanziamento del fabbisogno sanitario nazionale standard, a cui concorre lo Stato, su base annua dello 0,21% del prodotto interno lordo dal 2023 al 2027 fino a raggiungere una percentuale di finanziamento annuale non inferiore al 7,5% del prodotto interno lordo. Obiettivo che comporta un sostanzioso, ma necessario, incremento delle risorse – si spiega dalla Regione – da 128,869 miliardi di euro (fabbisogno programmato nel 2023) a oltre 149 miliardi, per avvicinare l’Italia al livello di altri Paesi europei (come ad esempio Francia, Germania e Regno Unito)”.

All’interno del disegno di legge poi si parla del superamento dei vincoli di spesa per il personale degli enti del servizio sanitario nazionale imposti dalla legge nazionale. “Una strada – viene spiegato – per superare il grave problema della carenza di professionisti sanitari che con la mancanza di risorse adeguate è un nodo fondamentale da sciogliere per la tenuta del sistema”.

Intanto ci sono alcune novità che riguardano anche Piacenza, di cui aveva già anticipato la realizzazione l’assessore regionale Raffaele Donini a Piacenza nella primavera scorsa.

Si tratta sostanzialmente di una scelta che tende ad alleggerire i Pronto soccorso oggi gravati da una massa di richieste non urgenti: “la maggior parte sono codici verdi o bianchi” aveva segnalato lo stesso assessore. Per questo si avviano i Centri di Assistenza e Urgenza (CAU) distribuiti sul territorio che prevedono equipe medico-infermieristiche, le UCA che opereranno al domicilio del paziente.

“Si tratta di strutture – hanno segnalato in Regione – in grado di rispondere, giorno e notte, alla gran parte dei bisogni e delle urgenze delle persone”.  Questa strada, secondo le scelte regionali, “permetterà di liberare contestualmente i veri e propri Ponto soccorso per le necessità dei codici più gravi”. Accanto a questo si parla anche del potenziamento della telemedicina, del servizio telefonico per la gestione delle chiamate di soccorso considerato a livello regionale un “vero e proprio snodo da rafforzare e qualificare per governare la miriade di bisogni differenti, ciascuno dei quali merita una risposta appropriata e nei tempi giusti”.

E insieme al numero unico per l’emergenza (il 112)  a breve sarà attivato anche il 116117, numero per richieste di tipo sanitario non urgenti: una delle funzioni assegnate a questo numero sarà il contatto con la guardia medica. I nuovi servizi saranno gestiti dall’Ausl di Parma anche per il territorio di Piacenza.

Se questo è il livello superiore, i nodi della sanità, nell’agenda istituzionale piacentina, rappresenteranno il banco di prova più importante e difficile del prossimo futuro. E questo interroga tutte le istituzioni locali che nella Conferenza sociale e sanitaria hanno voce in capitolo per farsi carico delle esigenze del territorio e spingere sulle decisioni dell’Ausl.

Quali sono i temi caldi? Oltre alla definizione dei contorni progettuali per il nuovo ospedale – che sarà certamente oggetto anche del ritiro della giunta Tarasconi della prima fine settimana di settembre –  sul tavolo, ben più cogenti, ci sono i tasselli da sistemare per dare funzionalità alla sanità quotidiana, quella che deve rispondere ai bisogni di salute dei cittadini e che si dovrebbero concretizzare con la costituzione delle Case della salute o di comunità (in queste settimane una certa preoccupazione è stata segnalata a Fiorenzuola per il progetto di realizzarla all’interno dell’ex municipio) che non riguarderà solo i muri e le strutture fisiche, ma i contenuti con cui esse saranno rese operative.

Naturalmente il primo obiettivo dovrà essere quello di dotarle di medici, infermieri e specialisti perché possano svolgere quel luogo di “filtro” dell’ospedale che, via via, sarà sempre più dedicato alle emergenze. Accanto a questo c’è poi un elenco lunghissimo di necessità che vanno dalle liste d’attesa alla mancanza di personale, soprattutto per alcuni servizi. Argomenti che riconducono tutti, come si diceva, al tema più generale dei finanziamenti per la sanità che non sembrano affatto in linea con i propositi enunciati a più riprese e da tutti durante il periodo della pandemia. Qualcuno se li ricorda ancora? Bene, quel tempo sembra finito, sepolto.

Si fa presto a dimenticare. La mente umana ha una particolare predisposizione a rimuovere tutto quel che è negativo, quello che ha fatto soffrire. Il Covid, due anni dopo, pare essere finito sulla strada dell’oblìo e ricondotto ad anni luce fa, anche se è stato l’altro ieri. È diventata cosa da dimenticare. Con la pandemia in soffitta, (anzi in cantina) tutti i propositi che allora sembravano decisioni cogenti già prese sono finiti anch’essi nella pattumiera dei ricordi.

Ne parlavano tutti. C’era un fiorire di proposte di “mai più trovarsi in questa situazione con la mancanza di strutture per curare i malati”; “mai più assenza di cure territoriali”; “ruolo nuovo dei medici di famiglia”… e via di questo passo. Sui giornali,  in video, sui social. Due anni fa, non due secoli fa, per come se ne parlava, per come si enfatizzava ci ha fatto sembrare che le decisioni fossero già prese, che le risorse per la sanità pubblica fossero un fatto assodato. Due anni fa, non  secoli fa,  sembrava che fosse bastata quella tensione “umana” che si era creata durante il Covid, per dare gas alle risorse e che tutto fosse già nei fatti.

Nulla di tutto quello che abbiamo sentito due anni fa, non un secolo fa, si sta facendo.

Non stupisce per nulla perché è moda di questi tempi continuare a parlare di argomenti in astratto che, se continuamente ripetuti, possono diventare un immaginario collettivo reale, traguardi già raggiunti. Ma sono solo parole di una realtà virtuale che non si concretizza. Mai. Eppure i due cardini su cui facevano perno quei propositi erano la medicina territoriale e il potenziamento della sanità pubblica.

In quella vicenda terribile che è costata al territorio piacentino tante vittime, si è mostrato come –  nonostante le eccellenze che il sistema privato mette in campo – il bisogno di salute attraverso i Livelli essenziali di assistenza (LEA) a cui tutti i sistemi sanitari regionali dovrebbero rispondere, si declina quotidianamente con la presa in carico dei pazienti (cronici e anziani soprattutto) ma va da sé che il principio universalistico di garantire servizi sanitari degni ai cittadini non possa essere intaccato.

Ma non è proprio così che sta funzionando?

A luglio i problemi più evidenti sono stati portati in piazza a Piacenza dal Coordinamento provinciale su salute e medicina territoriale a quelle domande nei prossimi mesi sarebbe necessario dare qualche risposta.

Le richiste singole prendono corpo da un punto di partenza ancora non affrontato. Si tratta della revisione – alla luce delle emergenze che si sono aperte con la pandemia – del Piano socio-sanitario varato nel 2017 e che viene giudicato non più adeguato alla situazione attuale. Sei anni che, per le carenze che si sono evidenziate, sono lunghi e pesanti come un lustro.

Con l’autunno si arriverà ad affrontare il problema?

E come si risolverà la mancanza di personale?

E come si cercheranno risorse per mantenere quei livelli assistenziali scritti sulla carta?

Interrogativi che seminano non poca inquietudine. Se l’assessore regionale ha escluso l’ipotesi di dare vita a Pronto soccorso privati in cui si paga per “saltare la fila” come si sta sperimentando in Lombardia (qui la sanità è quasi del tutto privatizzata) certi segnali danno l’indicazione che questa tendenza, seppure lentamente, si vada delineando. Un segnale in questo senso sono anche le recenti pubblicità televisive che invitano a “costruire” la propria assicurazione sanitaria per crearsi l’ombrello di protezione, un “salvagente personale”. Qualcosa che fa pensare e temere sul futuro di una sanità pubblica che, se non altro, si avvia ad essere molto diversa da quella che abbiamo conosciuto.

Antonella Lenti

commerciali

info@antonellalenti.it

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