LENTI A CONTATTO

Centri commerciali e supermercati siamo quasi alla bulimia. Si cambi rotta

Google+ Pinterest LinkedIn Tumblr

Centri commerciali e supermercati siamo quasi alla bulimia. Si cambi rotta

Il consumo di suolo non è una categoria astratta e tanto meno ideologica. Non lo è da nessuna parte e a Piacenza è un dato di fatto. Per documentare che questa zona è al centro di un vortice costruttorio ininterrotto da anni, diventato irrefrenabile, arrivano ora (ultimi in ordine di tempo) i dati che snocciolano le superfici di vendita di centri commerciali, supermercati e grandi esercizi tutti dediti al commercio al dettaglio di alimenti, oggetti ecc…

Un altro primato (negativo) al petto di una città che langue su tanti fronti.

Una proporzione di scaffali che farebbe stramazzare al suolo Marcovaldo, il personaggio che ha preso forma dalla penna di Italo Calvino e che, forse per primo in Italia, ha incarnato la contestazione della società consumistica che stava crescendo a tambur battente nei dinamici anni Sessanta.  

Chissà come si sentirebbe Marcovaldo, calato nella società piacentina, venendo a scoprire di avere a disposizione la bellezza di 0,63 metri quadrati di spazio vendita. Se ne sentirebbe soffocato? Si estranierebbe ancora di più? O forse ne sarebbe indifferente?

Uscendo dal paradosso resta un fatto concreto che ciascun piacentino di città “possiede” (ha a disposizione) 0,63 metri quadrati di superficie di vendita e, per un abitante della provincia, i metri salgono a 0,69.  Tre questioni su questo tema sollevano altrettante domande che allargano la riflessione. (vedi situazione generale in Ispra)

La prima riguarda la storia demografica di questo territorio che, si sa, pone Piacenza come tante città del Nord in quello che i sociologi chiamano inverno demografico perenne. Quindi è spontaneo chiedersi come sia possibile una superficie così vasta di vendita. Tanto più che la popolazione diminuisce, gli anziani aumentano e invecchiando si consuma meno. Quanto all’alimentazione, poi, non c’è consiglio del medico che non suggerisca di ridurre il cibo: è una regola aurea per salvaguardare una salute acciaccata dagli anni che passano.  

L’altro interrogativo è conseguente al primo. Come possono sopravvivere tanti punti vendita che offrono ai potenziali clienti le stesse cose e come impostano le politiche dei prezzi visto che, in presenza di tanta concorrenza, il prezzo praticato potrebbe essere l’unico discrimine per invogliare le persone ad acquistare proprio in quel posto.

Una terza domanda investe una questione più profonda e riguarda gli stili di vita in rapporto agli acquisti, soprattutto quelli alimentari. Da anni – sbirciando nei carrelli della spesa delle persone che si incontrano al supermercato – si notano alcune cose che possono far inorridire. Prima fra tutte la quantità di cibo pronto che si acquista… basta una scaldata evvai! È questa la molla? E perché? Per il poco tempo a disposizione? Per la difficoltà di preparare le pietanze dividendosi tra i tanti impegni?

Sta di fatto che gli spazi negli scaffali riservati ai generi primari – tra cui si collocano gli ingredienti necessari per realizzare un piatto con le proprie mani, vuoi una composizione di insalata, una salsa per la pasta, un secondo a base di carne e pesce … – sono talvolta molto ridotti. Perché perdere tempo a realizzarlo se lo trovi pronto? Sarebbe un altro spunto interessante studiare i costumi alimentari e con questo si potrebbe spiegare anche l’enorme crescita di punti vendita che indicano tale segmento come merce di punta. Rivolto soprattutto ai single che lavorano o a persone fuori sede…

C’è poi l’aspetto di una forma urbana che si modifica – anzi si è già modificata – e difficilmente può tornare indietro. Le categorie del commercio sollevano da anni il tema di un depauperamento della rete di piccoli negozi di vicinato che, anno dopo anno, scompaiono dalle vie della città. Certamente Piacenza soffre di quest’altro problema. Le strade dello struscio o dello shopping sono punteggiate di occhi di bottega bui. Sono vuoti, i negozi non ci sono più, hanno chiuso. Uno dopo l’altro e così intere vie centrali hanno perso vitalità tanto che, dove il ricordo porta all’immagine di quel tal negozio con quella signora così gentile dietro al banco ora ci sono portoni bianchi automatici che celano garage privati.

C’è carenza di spazi per le auto private, è vero. Ma è questa la soluzione? Portare fuori dalla città il commercio: è quello che è successo negli ultimi trent’anni con buona pace di tutti. Il commercio è stato il motore vitale. Non erano i traffici, i commerci che hanno determinato la nascita delle storiche città italiane di medie dimensioni?

Nel futuro quale dimensione sociale potrà avere una città che si trasforma come si stanno trasformando le nostre città? Case (poche e costose), uffici attivi tra le 9 e le 17 e inanimati garage privati? È orami tardi per cambiare rotta? Ci sono margini di rivitalizzazione? Alla fine le azioni umane possono essere modificabili e quindi, tra tanti metri quadrati costruiti, può insinuarsi un centimetro di speranza. L’occasione ci può essere. In questi mesi è stata avviata a Piacenza la discussione attorno a Piano urbanistico generale, il PUG. A fine aprile e a fine maggio se ne discuterà in due convegni nei quali Piacenza si confronterà con altre realtà che hanno già avviato questo lavoro. 

A parte le considerazioni e i rilievi critici riguardo al passato è il futuro su cui ci si deve impegnare e su un punto particolare: il consumo di suolo e come viene usato il suolo di un territorio (pur essendo un bene privato resta, da un punto vista immateriale, un bene comune che coinvolge tutti). Non deragliando mai da una consapevolezza che riportare “a campo verde” quello che è stato compromesso con asfalto e cemento non è come schioccare le dita di una mano.

Lo aveva ricordato un paio di anni fa il professor Paolo Pileri docente al Politecnico di Milano durante un incontro a Calendasco sul tema scottante del consumo di suolo. Attenzione – era stato il suo messaggio – non crediamo che, dopo aver costruito si possa recuperare quando si vuole. L’equazione non è così lineare, un terreno compromesso lo resta per molto, molto tempo. Come si inertizzasse. Il ritorno ai prati è una scommessa che ha  tempi lunghi. Per questo ci sarebbe molto da riflettere quando si decide di posare un mattone.

Antonella Lenti

commerciali

Lascia un commento