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Cultura, ultima spiaggia

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Cultura, ultima spiaggia

E poi c’è la cultura. Come il caffè e l’ammazzacaffè, arriva in fondo. Ci convince e ci esalta sentir dire dei tanti siti Unesco presenti in Italia; ci inorgoglisce sentir ricordare che l’Italia possiede la maggior parte del patrimonio storico artistico prodotto dall’uomo nei secoli; ci rende fieri possedere anche solo qualche tassello di tanta manna… Già.

(in copertina Photo by Daan Huttinga on Unsplash)

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Photo by Zaini Izzuddin on Unsplash

Brilliamo di luce riflessa: le civiltà che ci hanno preceduto. Ma della civiltà del Terzo millennio c’è qualcosa che si può dire?

Cultura sembra circoscritta a un’autoesaltazione del proprio operare senza tenere conto della valenze sociali che ha in sé per l’oggi e per il domani in quanto capace di cambiare le visioni, di allargare le menti. E’ il valore sociale della cultura e ne rappresenta anche lo scopo.

Quell’emblematico campo argilloso arso dal sole con crepe profonde e desolatamente brullo raffigurato in un manifesto che denunciava il deserto culturale intorno a noi negli anni Ottanta fu ideato dalle associazioni piacentine per lanciare la sfida a un’amministrazione comunale sorda e muta ad allargare i confini culturali del tempo rinchiusi nei soli canali tradizionali.

Quel sindaco (era Angelo Tansini) rispose che i piacentini avevano la televisione e tanto bastava. Tanto doveva bastare.

Forse era vero. Forse è bastato e non si è cercato di evadere, di conoscere di opporsi a sufficienza a quel declino se ancora oggi si parla di un deficit culturale che si rinnova. Spesso si portano gli stessi argomenti: spazi, iniziative, cura del patrimonio…

Oggi come allora si fanno confronti, si cercano esempi positivi intorno a noi (e ce ne sono tanti); ma anche questo tante volte non piace. Infastidisce.

Sono sempre le nuove generazioni a segnalare l’urgenza culturale e non si stancano di puntare il dito evidenziandone la carenza. Peccato che il peso socio-politico delle nuove generazioni sia di anno in anno sempre più scarso in termini numerici. Anche qui la demografia non aiuta.

Il ripetersi di un copione già visto e sentito porta a chiederci se non sia la dimensione provinciale a rendere lo spazio troppo angusto per progetti culturali impegnativi che escano dalla stereotipata tradizione consolidata.

E’ questo il problema? Forse sì se è vero che tutti noi corriamo il rischio di diventare schiavi degli schemi, dei simboli e dei reticoli che abbiamo costruito e in cui finiamo imprigionati.

Con quel continuo pensare “in circolo” stiamo affossando il significato stesso che sta alla base del termine cultura: apertura e capacità di leggere il passato, ma anche il presente e disegnare il divenire. Passa tutto da qui.

Non capirlo significa perdere tante occasioni.

Significa accettare la direzione in cui ci incanala la corrente imperiosa del non agire. Prigionieri del nostro privato reticolo di simboli rassicuranti. Il risultato resta sempre il prevalere del “Meglio non fare” il senso del tanto comune detto piacentino.

Tornando agli anni Ottanta di cui si parlava la risposta paradossale che diede il sindaco del tempo all’accusa di stare attraversando un “deserto culturale” esprimeva la seria convinzione che la richiesta culturale fosse equiparabile a quella di spazi ludici per divertirsi come fosse la ricerca di una culla di dolce far niente.

Paradossi si sommano a paradossi. Tanto paradossali da essere utili per soffocare il senso di asfissia che si respira e intossica. Una posizione dura a morire quella degli anni Ottanta se ancora oggi quel settore culturale resta spesso in fondo alla lista dei bilanci. Ma un bilancio del tutto privo di soldi sulla cultura sarebbe un brutto biglietto da visita. Ecco dunque che si formalizza qualche stanziamento. Parlare di cultura tante volte sembra dettato dalla necessità di seguire la forma.

Poco si fa per cercare altre risorse perché il pilastro della cultura venga consolidato e rinsaldato.

Ma qual è la sostanza di questo tema? Anche qui è una questione di lessico. Che cosa s’intende per cultura?

Può esistere un intervento pubblico che stimoli eventi culturali a beneficio di tutti? Facilitare l’espressione culturale si può equiparare a rendere un servizio pubblico che accresce la conoscenza di una collettività? Credo di sì ma da questa linea siamo lontani mille miglia. Anzi  c’è stato un tempo in cui l’azione culturale ad emanazione pubblica veniva tacciata di “indottrinamento delle masse”; c’è stato un tempo in cui quel bene pubblico è stato lasciato languire convinti che con la “cultura non si mangia” tornando quindi ad avvalorare la tesi che fosse un bene illusorio e accessorio.

C’è poi un altro tempo – è eterno e sopravvive a tutte le mode -secondo cui la cultura è un elemento talmente alto a cui inginocchiarsi che può avere solo spazi propri su cui svilupparsi. Un lieto pensare che punta a conservare quella particolare espressione umana del sapere in una teca senza permettere che venga confusa con altri scopi. Un punto cruciale questo perché quell’azione difensiva è insidiata da vicino da una forte e diffusa ricerca culturale che vuole spaziare oltre i confini e che si allea con altri segmenti di sociale importanza come viaggio e perché no turismo.

L’aulica visione culturale ha di che ridire su questo connubio. Ma è sempre una questione di cosa s’intende per cultura. Se è quel magma in movimento dei saperi, della curiosità di conoscere, delle storie umane (e perché no vegetali e geologiche che le hanno determinate) non c’è scandalo se cultura e turismo s’incontrano come compagni di viaggio temporanei.

Del resto anche Piacenza in anni lontani ha vissuto di esperienze culturali attraverso due festival importanti “Carovane” prima e del “Diritto” poi. Insieme a notevoli contenuti culturali ha richiamato sulle stanche e disincantate rive del Po tante persone spinte da quello che si chiama “Turismo culturale” da altre città o Paesi. Per motivi diversi quelle due storie sono entrate a far parte del passato. Non era vera cultura?

info@antonellalenti.it

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