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Alleluia, ora anche Biancaneve si accorge dei tagli alla sanità

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Ne parlano tutti. Ora. E’ come se Biancaneve avesse aperto gli occhi e si accorgesse dei tagli alla sanità. Alleluia E’ come se vedesse la cruda realtà materializzata a sua insaputa: la sanità falcidiata. Alla buon’ora. Una parte (non irrilevante) della crisi sanitaria che va in scena ogni giorno si deve ai tagli alla sanità di cui siamo stati tutti testimoni negli anni scorsi e come in un tacito assenso non abbiamo opposto molte resistenze.

Malattie infettivi, per il decreto Balduzzi del 2012 il reparto di Piacenza non avrebbe avuto il numero sufficiente di utenti. Il range previsto era un massimo di 1 milione e 200 persone e un minimo di 280mila persone. Intanto il 2020 ci ha portato il coronavirus…

Tutto bene, “il governo è amico”!

Soprattutto se a prendere quelle decisioni erano “governi amici” da qualsiasi parte la si guardi. Gli anni Novanta e Duemila soprattutto (esattamente come è successo per altri aspetti per il mondo del lavoro nel quale sono fiorite le flessibilità più spietate interpretate come libertà di vita), si è suonata la grancassa al disimpegno pubblico nel settore della sanità.

L’illusione della modernità

Il sentire collettivo era più o meno spinto a credere e a sentirsi al riparo e suonava più o meno così: “Allegri ragazzi siamo entrati nella modernità siamo flessibili, leggeri… liquidi, le malattie oramai tutti le hanno imparate su google… che bisogno c’è mai di continuare a sfornare dottori. Stringere, ridurre, ottimizzare… Che bisogno c’è di sprecare tanti soldi in sanità… si vive più a lungo, le malattie sono tenute a bada, anche di cancro si muore di meno”.

Liquidi.

Un comune sentire che ci ha fatto accettare senza reagire lo sventramento del sistema sanitario pubblico.

E ora ci investe il finimondo arrivato da un virus di cui nessuno sa nulla

Ma come non avevamo in mano le redini, non eravamo al riparo?

Tutto questo avveniva senza che tanti giornali – che oggi sciorinano cifre, considerazioni, valutazioni a ritroso – abbiano scritto nemmeno una riga di dissenso. Anzi.

Anni quelli in cui si doveva dimostrare che lo statalismo era un capitolo finito nella nostra storia democratica e anche e forse soprattutto a sinistra si volevano mostrare “buone intenzioni” nel non ostacolare l’intrapresa privata in un largo spettro di attività. Sanità compresa.

Sotto la bandiera che portava le truppe a contestare i tanti sprechi nella sanità si è proceduto a tagliare, tagliare anche l’intagliabile dal piccolo al grande.

Il processo è iniziato però molto tempo prima, quando si era imposto il principio secondo cui il cittadino avrebbe dovuto compartecipare alla spesa nella salute attraverso i ticket.

Unica strada per poter mantenere il sistema sanitario pubblico perché le casse della salute facevano acqua da tutte le parti.

Secondo il curioso principio che chiamerei di “irresponsabilità individuale” da parte del controllori quindi si è scelta la via ridimensionare la spesa dimostrando di non essere in grado o meglio di non voler essere in grado di incidere con un netto colpo di bisturi le parti del sistema diventare bubbone infetto.

C’erano di mezzo altri interessi.

Personali, politici, di quieto vivere. E poi si è frapposta anche la scelta costituzionale spinta dall’onda federalista di quel periodo che nel 2001 ha avallato la proliferazione regionale dei sistemi sanitari. Complicando ulteriormente la faccenda, come si è visto in queste settimane.

Un percorso che va nelle medesima direzione e che porta lo stato alla dismissione delle proprie responsabilità ammantandole di una supposta concessione di democrazia dal basso, di potere ai territori.

Istruzione e sanità, di questo sono sempre stata convinta, sono due elementi fondamentali e ogni cittadino di un paese deve avere le stesse opportunità, gli stessi servizi ovunque viva. Lo esige la coesione dello stesso stato. Ma così non è.

Lo spezzettamento del governo della sanità ha creato isole più o meno felici e zone in cui – la narrazione di questi giorni ce la racconta di continuo – se arriva il contagio del coronavirus non resta che votarsi al santo protettore e accendere un cero.

Si piange sul latte versato e ora che si avrebbe bisogno di quel latte non lo abbiamo perché e lo si è gettato via. Così è successo anche per i posti letto. Prendiamo il reparto di malattie infettive.

Forse pochi sanno che non più tardi del 2012 fu approvato il decreto del ministro Balduzzi – si era in pieno periodo di rischio default per l’Italia – in cui la parola d’ordine era tagliare. E non era esente neppure Piacenza.

Bene, stando a quel dettato legislativo il reparto di malattie infettive a Piacenza non dovrebbe più esistere perché il conto dell’efficacia e dell’efficienza di un servizio come quello era stato calcolato partendo dal bacino d’utenza disponibile.

Che dire? A volte le scelte politiche (e in questi anni su questa materia ci sarebbe un elenco infinito) vengono fatte senza criteri basati sull’evidenza.

Col decreto Balduzzi Piacenza avrebbe perso malattie infettive, con buona pace del virus. Non aveva il bacino d’utenza minimo richiesto di 600mila abitanti

Che cosa sarebbe successo a Piacenza ma probabilmente in tanti ospedali oggi sotto i riflettori per mancanza di posti letto per prestare le cure ai pazienti attaccati dal virus? Se oggi si rischia l’ecatombe sanitaria proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se i tagli previsti fossero stati attuati.

Così è scritto in quel decreto “L’individuazione delle strutture di degenza e dei servizi che costituiranno la rete assistenziale ospedaliera deve essere effettuata in rapporto ai bacini di utenza, come di seguito indicati, laddove le regioni non dimostrino di avere già strutturato una rete, con caratteristiche di efficacia e appropriatezza, con un numero di strutture inferiore allo standard previsto”. 

Per quanto riguarda Malattie infettive il range di popolazione di riferimento per mantenere il reparto oscilla tra 1milione e 200mila e 600mila abitanti. E’ evidente che i 18 posti della realtà piacentina con “soli” 280mila abitanti di riferimento avrebbe visto sacrificato il servizio.

Con buona pace dell’emergenza che a distanza di otto anni si è determinata con il Coronavirus

“A volte non è del tutto negativo se nel nostro paese certe leggi restano lettera morta e non si applicano – è stato l’amaro commento di Luigi Cavanna direttore del dipartimento di onco-ematologia. Perdere posti letto di un reparto non è l’unico problema quando si effettuano tagli negli ospedali. Si perde l’esperienza maturata dalle persone che in quella struttura hanno lavorato e che sanno come curare i malati”.

Nell’ottica di quel decreto i servizi sanitari presenti nel Piacentino avrebbero subìto un taglio netto non solo per malattie infettive. In quegli anni – lo si ricorderà – accanto a questa cosiddetta razionalizzazione della sanità si parlava anche della soppressione delle province con meno di 300 mila abitanti e della creazione di un’area vasta che vedeva Piacenza accorpata a Parma.

Ecco cosa si dice nel decreto in questione

“Nell’ambito della rete ospedaliera è stata articolato il dimensionamento delle diverse discipline in dipendenza del bacino di utenza.

Il bacino di utenza della singola disciplina è stato calcolato sulla base delle patologie normalmente trattate dalla disciplina, della frequenza delle patologie nella popolazione e della numerosità minima di casi per motivare un reparto ospedaliero con un Direttore di struttura complessa.

Un altro parametro preso in considerazione è la necessità di una corretta articolazione dei presidi ospedalieri nella rete di Emergenza-urgenza, in particolare per i Dipartimenti di Emergenza-urgenza (DEA) di primo e di secondo livello che formano la “dorsale” di questa rete.

Il percorso per l’applicazione della tabella di cui sopra è il seguente:

1. identificazione del fabbisogno di prestazioni ospedaliere di acuzie e lungodegenza e riabilitazione post- acuzie applicando criteri di appropriatezza sui ricoveri effettivamente erogati e con una eventuale correzione per la mobilità in considerazione dei volumi di attività dell’Emergenza urgenza, in ambito Ospedaliero e Territoriale, fermo restando le attività di ricovero di alcune regioni virtuose;

2. calcolo del numero corrispondente di posti letto normalizzati (pubblico e privato) presupponendo un utilizzo efficiente di ciascun posto letto (tipicamente un utilizzo medio tra l’80% e il 90% durante l’anno); il calcolo è effettuato per una sua applicazione sia per l’intera regione sia per le aree omogenee della regione ed è articolato anche per singola specialità;

3. disegno della rete ospedaliera (pubblica e privata), partendo dai presidi e dalle specialità necessarie a garantire la rete di Emergenza-urgenza e definendo il bacino di utenza di ciascuna specialità, il fabbisogno di prestazioni ospedaliere e di posti letto normalizzati relativi nonché le strutture pubbliche e private esistenti;

4. la regione, nel definire il modello organizzativo dei singoli presidi, provvederà ad assicurare modalità di integrazione aziendale e interaziendale tra le varie discipline secondo il modello dipartimentale e quello per intensità di cure.

L’applicazione del percorso sopra definito prevede dati in riduzione rispetto ai parametri relativi ai posti letto esistenti al momento (4,0 p.l. per mille abitanti di cui 0,7 p.l. per le discipline di lungodegenza e riabilitazione post-acuzie) per rendere i medesimi dati coerenti con la riduzione al 3,7.

La riduzione del fabbisogno di posti letto deriva sia dal percorso di appropriatezza che prevede una conversione di ricoveri ordinari in day hospital e prestazioni territoriali e la conversione di ricoveri in day hospital in prestazioni territoriali, sia dal calcolo dei posti letti normalizzati nel caso di scarso utilizzo dei posti letti esistenti.

Il numero di strutture complesse ospedaliere risultanti è anche perfettamente compatibile con l’orientamento del Ministero della salute (17,5 p.l. per Struttura Complessa previsto dal Comitato LEA) ed è riferibile ad ogni singola disciplina.

Inoltre, l’introduzione di soglie di volume minime comporterà un’ulteriore riduzione di posti letto, in particolare per le strutture complesse delle discipline chirurgiche, che nelle regioni in piano di rientro si aggira sul 25% mentre nelle restanti regioni è di circa il 10%. Per l’area medica la riduzione è minore, ma comunque significativa per la rete Cardiologica.

Per quanto concerne le strutture complesse senza posti letto (laboratorio analisi, radiologia, anatomia patologica, centro trasfusionale, direzione sanitaria, farmacia ospedaliera, ecc.) si è identificato, sulla base delle prestazioni attese, nonché della necessità della presenza di tali discipline nei Dea di I livello, un bacino di utenza tra 150.000/300.000 abitanti.

La variabilità dei bacini di utenza tiene conto dei tempi di percorrenza dei cittadini, calcolata anche con la metodologia di analisi e di rappresentazione grafica (c.d. georeferenziazione) e quindi, le regioni dovranno utilizzare i bacini minimi in presenza di territori a bassa densità abitativa e quelli massimi in caso opposto”.

Questo quanto è scritto nel decreto approvato e diventato legge.

dal 2012 AL 2015 PERSI 694 POSTI DI MALATTIE INFETTIVE E LE RETI NAZIONALI NON CI SONO. IL GRIDO D’ALLARME AL CONGRESSO DEGLI INFETTIVOLOGI DEL 2015

Ma c’è di più. In un convegno nazionale di infettivologi (Simit – società italiana di malattie infettive) svoltosi a Catania nel 2015 si è denunciato che dal 2012 al 2015 In Italia oltre a non aver dato vita alle reti come previsto dalla legge,  sono stati cancellati 694 posti letto nelle Unità Complesse di Malattie Infettive pari al 23,3% in meno

Inoltre durante con quel congresso in cui si è parlato della “Caporetto delle malattie infettive” è uscita la seguente presa di posizione “La proposta di uno o più modelli di rete infettivologica nazionale (RIN) deve avere come primo obiettivo la salvaguardia delle funzioni dell’ infettivologia in Italia.

– deve peraltro considerare le diverse realtà regionali: proposte che potrebbero andar bene a in una regione ma potrebbero non essere realizzabili in un’altra e viceversa.

-andrebbe definito entro che ambito ci muoviamo per definire una struttura hub, sulla scorta del modello decreto Balduzzi: area (ex provincia?), afferenza di popolazione, numero minimo di ricoveri, numero minimo di letti, ecc.

-vanno specificate tutte le funzioni dell’ infettivologo (esclusive e non) in ospedale, sul territorio ed in compartecipazione con altre reti di patologia”

Considerazioni portate dalle slide del dottor Marco Tinelli direttore USC Malattie infettive e tropicali dell’Azienda ospedaliera di Lodi.

Lodi, città lombarda ora nel cuore dell’emergenza coronavirus.

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2 Comments

  1. Nulla da dire; analisi che non fa una grinza. Viene da chiedersi se questo colossale abbaglio – di politici ed elettori – che ha portato allo smontaggio del welfare, dei diritti dei lavoratori e al mito della privatizzazioni, possa insegnare qualcosa. Speriamo in positivo…

  2. Grazie Joe per l’attenzione.
    Spero che tu abbia ragione.
    Adesso che tutti hanno sotto gli occhi i rischi che si corrono con la dismissione della sanità pubblica si sentono ovunque cori di preoccupazione. Quando iniziò questo percorso – e si deve andare molto indietro nel tempo -le voci contrarie venivano tacciate espressione vetero… a essere buoni.
    Mi auguro che s’impari dalla lezione. I traumi si superano e ci si può anche migliorare.
    Ma il percorso non si attiva da solo ci si deve impegnare molto e dimostrare a noi stessi di aver compreso i messaggi.
    Ora tante persone esorcizzano il male cercando la vicinanza degli altri sui social quegli stessi social che sono serviti fino a ieri per insultare, per mettere alla berlina.
    E poi sono belli fanno colore, dimostrano un fiorire di creatività i balconi canterini. Della serie canta che ti passa. Ok sul momento è una reazione interessante che fa parlare il mondo.
    L’impegno stringente deve essere per il dopo, una volta scesi dai balconi bisogna esigere un ripensamento del sistema e chiamare a gran voce un impegno per una Sanità di nome e Pubblica di cognome che garantisca gli stessi diritti di accesso a tutti i cittadini del Paese e non in virtù del campanile della propria regione. E lo stesso rigore dovremmo averlo sulle questioni ambientali perché finiscano i proclami e si passi al concreto. Quello che è avvenuto non credo sia disgiunto da questo tema.
    UN discorso troppo serio? Credo che al punto in cui siamo abbiamo scherzato abbastanza.

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